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Sei in: MOTO - MEDIO ORIENTE: LA TERRA PROIBITA - DIARIO DI VIAGGIO - GIORNO 15
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MEDIO ORIENTE
La Terra Proibita

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15.3.2010 – lunedì – giorno 15
Pella (HKJ) (6.42) –
Beirut (RL) (18.43)
km 302
viaggio h 12.01, guida h 5.34

Dirigo a nord verso il temuto confine siriano; è un valico diverso dall’andata (che era sull’autostrada), pochi chilometri a ovest: quello di Ar Ramtha/Deraa. I controlli giordani non creano problemi: la solita perdita di tempo, ma non eccessiva (20 minuti); stavolta il timbro lo faccio mettere eccome: devo infatti dimostrare ai siriani che sono regolarmente entrato in Giordania (6 giorni fa ad Aqaba) e ne sto uscendo adesso, senza passaggi intermedi in altri Stati (cosa che invece è avvenuta nei due giorni in Israele).

7. SIRIA E LIBANO

Affrontiamo quindi la dogana siriana. Mentalmente faccio un controllo per verificare di aver preparato tutto:
– il passaporto è a posto, “pulito”, tranne quel timbro anonimo, israeliano ma in inglese;
– i foglietti dove gli israeliani hanno apposto i loro timbri sono ben nascosti (farei meglio a distruggerli, ma li voglio tenere per ricordo);
– la bandiera adesiva di Israele è coperta;
– la cartina del viaggio è senza la parte di passaggio in Israele;
– la guida di Israele è coperta da una finta copertina della Giordania;
– la carta di Israele ha la copertina sostituita con quella della Turchia (anche in questo caso, sarebbe più sicuro liberarmene, ma voglio tenerla per ricordo e non voglio affidarla ad altri per mandarla in Italia; voglio fare tutto da solo);
– la banconota di Israele (conservo sempre una banconota degli Stati attraversati) è ben nascosta;
– i pochi acquisti fatti in Israele sono piccoli e ben occultati nella moto.

Sono le 9. Iniziano i controlli. Più o meno mi ricordo la sequenza delle operazioni, ma non mi sembra di procedere più velocemente, anzi. Forse perché questa dogana è meno importante di quella attraversata all’andata, che era sull’autostrada e quindi sul percorso principale tra le due capitali, Damasco e Amman.

Arrivo nel posto di polizia, dove avviene il controllo del passaporto. Il poliziotto siriano prende il mio passaporto e comincia a sfogliarlo. Guarda tutte le pagine, nessuna esclusa. Quelle con i timbri e quelle bianche. E, su ognuna di quelle timbrate, si ferma e osserva. Comincio a sudare, ma non è il caldo. Arriva alla pagina del timbro israeliano: si ferma. Guarda con attenzione: ruota il passaporto, per guardare il timbro nella giusta direzione. L’ho imparato a memoria quel timbro: so perfettamente com’è fatto, con quelle poche anonime parole inglesi, quella data di ieri e quei numeri apparentemente senza senso. È la pagina 26 del mio passaporto di 48 pagine. Il poliziotto prosegue e controlla il resto del passaporto, con la solita Infatti, finita la “prima lettura”, il poliziotto sfoglia di nuovo il passaporto dall’inizio e si ferma a quella pagina, osservando di nuovo attentamente quel timbro.

Ostento tranquillità; evito di incrociare lo sguardo del siriano; guardo le mie carte, con finto interesse, e ogni tanto getto l’occhio lì, pochi centimetri oltre il bancone, dove si sta decidendo la continuazione del mio viaggio in Medio Oriente.

La situazione precipita: il poliziotto è sempre fermo sulla pagina 26 e chiama un collega, evidentemente per consultarsi sul problema. I due guardano il passaporto, si scambiano poche parole a bassa voce, poi il collega si allontana. Da quello che ho capito, il più alto in grado è il primo, è lui quindi che dovrà decidere il mio destino; il tempo passa e il poliziotto ha sempre in mano il mio passaporto, aperto su quella pagina, e fissa il timbro. Cerco di immaginare cosa sta passando per la sua mente, in modo da essere pronto. Ha guardato con attenzione tutti i timbri del mio passaporto (che è nuovo, quindi contiene solo timbri di questo viaggio) e ognuno è riuscito ad “abbinarlo” ad uno Stato; ha quindi ricostruito il mio percorso dall’Italia a qui. Gli è rimasto solo un timbro, di cui non riesce a comprendere la provenienza, quello di Israele.

Ecco, è il momento; il poliziotto volge il passaporto verso di me e mi chiede, in inglese, cosa è quel timbro: “what is?”. “E che ne so!”, rispondo (sempre in inglese), dopo un attimo di finta esitazione, come se non mi aspettassi quella domanda; allargo le mani e stringo le spalle, come a dire: li mettono in dogana quei timbri, io non li controllo; chissà quale frontiera l’ha messo! Intanto, però, penso che la data di quel timbro è molto “compromettente”; quel giorno (il 13 marzo), appena due giorni fa, io dovevo essere in Giordania (dalla quale non sono mai “ufficialmente” uscito), quindi come posso giustificare un timbro con quella data?!

Il poliziotto annuisce, ma continua a guardare quella pagina del mio passaporto. Passa un altro, lunghissimo minuto e mi fa la domanda decisiva (sempre in inglese): “Tu sei stato in Palestina?”.
“Pale… what?”, rispondo, con simulata sorpresa. E poi, dopo una breve pausa, come se ne avessi bisogno per comprendere il senso di una domanda che invece comprendo benissimo: “Palestina?! No, io? No. Non si può andare in Palestina! Vedi [e intanto tiro fuori da una tasca la cartina che avevo preparato per l’occasione, dove il mio percorso è falsamente riportato evitando accuratamente di segnare il passaggio in Israele, di cui ho anche cancellato il nome, per evitare di creare ogni problema], io non sono passato dalla Palestina. Sono sbarcato ad Aqaba, dall’Egitto [e gli indico sul passaporto il timbro egiziano di uscita e quello giordano di entrata] e poi ho visitato il Wadi Rum, Petra, Amman [cosa non vera, perché dalla capitale giordana non sono nemmeno passato] e Pella, dove ho dormito stanotte [le bugie migliori sono quelle che contengono elementi di verità]. Adesso entro in Siria perché voglio visitare il magnifico teatro romano di Bosra [una località qui vicino, quindi il poliziotto probabilmente la conosce bene] e la vostra bellissima capitale Damasco. Poi passo in Libano per quindi tornare in Siria (Palmyra) e infine Turchia e casa”.

Il poliziotto esita; ha sempre il mio passaporto in mano, aperto su quella pagina, ma non completamente; ora è semichiuso. Forse ce la faccio. Gli sorrido, non troppo come se gli stessi chiedendo un favore (non deve credere che ho qualcosa da nascondere), ma abbastanza per fargli capire che sono tranquillo, che non ho nulla da occultare. Distolgo lo sguardo dal suo, con naturalezza, frugando tra le mie carte (che invece conosco a memoria), come se volessi mostrargli qualcosa; devo lasciarlo tranquillo, per qualche secondo, per i secondi decisivi.
Mi fa un cenno: “puoi andare”. È fatta!

Torno alla moto, ma, mentre sto per rimettere a posto i documenti, mi accorgo che l’adesivo nero che copriva la bandiera di Israele è caduto! Un brivido mi percorre la schiena, rendendomi conto del rischio che ho corso, con la moto parcheggiata proprio di fronte al posto di polizia dove si stava decidendo il mio destino per il resto del viaggio, con la bandiera di Israele in bella evidenza, attaccata sul bauletto destro! È anche vero che di bandiere ce ne sono altre 60, ma, se qualcuno si mette a guardarle tutte, quella di Israele (soprattutto qui in Medio Oriente) la riconosce subito. Con noncuranza mi abbasso vicino alla bandiera e, in un attimo, la stacco dalla moto, mettendomela in tasca. Riflettendo su quello che può essere successo, immagino che, avendo usato un adesivo diverso dal solito, questo (di qualità diversa) non ha aderito bene alla superficie plastificata della bandiera e quindi si è staccato, proprio dentro la dogana siriana!

Alle 10 sono fuori dalla frontiera. L’ora più lunga della mia vita.

E ora, Damasco!
...
Ho deciso di visitare la grande moschea degli Omayyadi, che si trova al centro di Damasco. Punto quindi deciso verso il centro, dirigendomi verso il punto indicato dal gps, che però non ha segnate con precisione le strade, quindi ovviamente le scelgo “a vista”, in base a quella che mi sembra la direzione migliore. Chiedo ad alcuni poliziotti in moto, che gentilmente mi indicano la strada: “sempre dritto, di là” (lo capisco dai loro gesti, perché in arabo…).

Proseguo quindi sempre dritto, come consigliato; sì, facile a dirsi; il centro storico di Damasco, una delle più antiche città del mondo (ha circa 5.000 anni), può essere definito labirintico; aggiungiamoci il traffico, il “fantasioso” stile di guida locale e abbiamo una situazione non proprio ottimale per raggiungere un luogo. Comunque, avanzo più o meno diritto, chiedendo ogni tanto; tutti mi dicono di continuare ancora nella stessa direzione e, in effetti, il gps mi conferma che sto andando verso est, proprio dov’è la moschea. Spinto dalle indicazioni della gente e della stessa polizia, mi faccio strada nel traffico, percorro qualche tratto contromano (la strada era bloccata) e poi mi trovo davanti a qualcosa che sembra una strada pedonale, ma non è chiaro. Mi dicono di continuare, quindi passo con la moto da uno stretto passaggio e mi trovo… nel bel mezzo del Souq Al-Hamidiyya, il lungo mercato coperto della città!

I 5 minuti che seguono sono una delle esperienze più strane (e belle) della mia vita; sono dentro un suq orientale, nel cuore di Damasco, con la mia moto. Quando mi rendo conto della situazione, mi fermo e accenno a tornare indietro. Ma chiedo di nuovo dov’è la moschea degli Omayyadi e tutti mi indicano di andare avanti; addirittura la gente si sposta per farmi passare! Cerco di farmi piccolo (una parola, con mezza tonnellata di moto!) e, chiedendo ripetutamente scusa, proseguo, in mezzo all’affollatissimo suq.

Continuo però senza nessun problema; la gente, quando mi sente arrivare (non sempre, poiché la Gold Wing è molto silenziosa), si scosta subito, sorride e mi saluta. Infine, vedo la luce: non è un modo di dire, è proprio che il suq è interamente coperto e, in fondo, vedo l’uscita, con la luce che vi penetra.

Esco dal suq e, è magnifico, sono proprio di fronte alla moschea Omayyadi! Parcheggio la moto sotto le colonne corinzie del propileo dell’antico Tempio di Giove (di epoca romana), che sorgeva qui prima della moschea.

La guida scrive che l’entrata è sul lato nord, vicino al Mausoleo di Saladino, ma vedo un’entrata davanti a me, proprio dove ho parcheggiato la moto, e quindi accedo di qua. Poi mi viene in mente che forse questa è l’entrata dei fedeli e per questo quindi non ho pagato il biglietto (previsto invece dalla guida).

Comunque ormai sono dentro e proseguo. Da qui si entra in un ampio cortile, completamente lastricato di lucida pietra calcarea bianca. È splendido, circondato da tre lati da un porticato a due piani; il quarto lato è la sala di preghiera. Noto degli addetti che puliscono in continuazione il pavimento con dei grandi spazzoloni.

Non vedo turisti, solo fedeli. Entro nella sala di preghiera, che occupa tutta la parte meridionale della moschea. Due alti colonnati la dividono in tre ambienti, col sinistro riservato alle donne; posso fotografare ovunque, tranne nel settore riservato alle donne. È tutto riccamente decorato, ma immagino quanto lo fosse ancora di più prima della conquista mongola, che la saccheggiarono, e dei terremoti e incendi che la distrussero. Numerosi lampadari dorati pendono dagli alti soffitti, il pavimento (come solito nelle moschee) è completamente ricoperto di tappeti. C’è anche una bella edicola, interamente in marmo, contenente la tomba di San Giovanni Battista (il profeta Yehia per i musulmani): la testa del Battista fu trovata durante la costruzione, sotto il pavimento della vecchia basilica; questo è comunque solo uno dei tanti luoghi che ne rivendicano il possesso. Noto alcune persone che pregano anche davanti a questa tomba; quante cose hanno in comune cristianesimo e islam. All’interno della tomba, vedo diverse offerte in denaro sul pavimento.

Uscito, vado verso l’attiguo Mausoleo di Saladino; qui si paga per entrare e, in effetti, sarebbe questo l’ingresso della moschea per i turisti. La tomba del famoso condottiero (Salah Aldin Al-Ayoubi) è semplicemente in legno, in linea col suo stile di vita austero, mentre accanto è una tomba in marmo, dono dell’imperatore di Germania Guglielmo II, nel corso della sua visita a Damasco del 1898.

Non posso però partire da Damasco senza almeno un giro nel suo suq centrale, che si estende subito a sud della moschea. Una interessante caratteristica è che il suq è diviso in diverse zone, ognuna delle quali specializzata in un settore merceologico; cammino quindi attraverso il suq dei gioielli, quello delle spezie; e poi la zona dei vestiti, dei giocattoli, della cancelleria, degli articoli della casa…

Ma è l’atmosfera generale, i colori, la gente, che è quello che colpisce di più del suq; è interessante girare, così, senza meta, semplicemente a guardare. Ne approfitto comunque per comprare i regali per moglie e figlia: ottimi prezzi. La maggior parte delle donne sono velate (anche se normalmente senza il volto coperto), ma non tutte.

È ora di andare a Beirut.

Il Libano è l’unico paese asiatico del viaggio in cui non pago assolutamente nulla; con una certa sorpresa, anche il visto è gratis. Oltre l’arabo, molti parlano il francese, meno l’inglese; non ci sono però problemi di comunicazione: tutti sono gentili.

Attendo un po’ di tempo, comodamente seduto in una saletta della dogana, con l’ufficiale che mi offre da bere, in compagnia di un ricco arabo del golfo, che si sta recando a Beirut per divertirsi.

Sono ormai le 17, ho appena 44’ prima del tramonto. Sto attraversando la valle della Bekaa, nota sede di campi di addestramento di numerosi gruppi paramilitari islamici, fino a pochi anni fa occupata dalla Siria.

Superate le montagne dell’Antilibano, tocca affrontare le montagne della catena costiera del Libano. La salita però non è nulla rispetto alla discesa, che ricorderò sempre.

Comincia a piovere e ormai il sole è basso. Scollino con l’ultima luce, ma la discesa si presenta davvero ripida; il traffico inoltre è intenso, anche di camion. A ciò si aggiunge la sciagurata abitudine (che trovo in tutto il mondo) di “rigare” la strade con solchi longitudinali (che sono pericolosissimi per le moto), invece dei più sicuri, ma più scomodi da fare, trasversali; solchi che però non rendono la strada meno scivolosa (forse anche a causa delle “perdite” dei camion). Gli  stretti tornanti della ripida discesa verso il mare diventano quindi un incubo.

Ormai è buio; affronto con prudenza i tornanti, leggo il gps che mi dà ancora una quota incredibilmente elevata in rapporto alla ormai brevissima distanza (in linea d’aria) dal mare e cerco di non cadere.

Arrivo infine a Beirut.

Sistemata la questione alloggio, faccio un giro in città; Beirut si conferma una città piena di vita notturna, con ristoranti e bar all’aperto, sia nei quartieri cristiani che in quelli musulmani, un tempo divisi dalla linea verde, vera linea del fronte. I segni della lunga guerra civile sono ancora evidenti su alcuni palazzi, ma sembra che la gente abbia una gran voglia di riprendersi da quel lungo periodo buio e la vitalità della città ne è un segno.

Mi fermo in un locale (non uno di quelli più cari, altrimenti spenderei più che di albergo) e assaggio una specialità del posto. Seduto al semplice tavolino all’aperto, prendo un po’ di fresco, probabilmente il primo del viaggio di ritorno: ora la temperatura è scesa a 14°. Credo di essere ormai fuori dal caldo e quindi, dopo un breve periodo intermedio, tra un po’ il problema sarà l’opposto.

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