MEDIO ORIENTE
La Terra Proibita
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14.3.2010 – domenica – giorno 14
Betlemme (PS) (7.22) –
Pella (HKJ) (19.04)
km 203
viaggio h 11.42, guida h 3.51
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La Basilica della Natività è a pochi metri, ma preferisco raggiungerla in moto, in modo da averla sempre (o quasi) sottocchio; e poi, comunque, uso la moto sempre fino a che posso. La Basilica è posta in una piazza dal nome evocativo: piazza della Mangiatoia. Sul lato opposto è presente una moschea, col suo minareto svettante che ricorda come questa sia una città in cui convivono una comunità cristiana e una musulmana. Su un altro lato della piazza, il “Bethlehem Peace Center”. Già, pace. Un luogo del genere la meriterebbe, ma è inutile illuderci: non ci sono in Palestina luoghi che, per la loro natura, garantiscano la pace; nemmeno luoghi santi come questo, tanto importanti per i cristiani (e non solo).
Guardo la Basilica e penso che, pochi anni fa, lei stessa è stata violata da uomini in armi. Il 2 aprile 2002, durante l’operazione “Muraglia di difesa”, condotta dall’esercito israeliano per colpire le basi terroristiche palestinesi in Cisgiordania, 200 palestinesi (di cui 50 armati) si rifugiarono nella chiesa, per 39 giorni, per sfuggire agli israeliani. L’esercito israeliano assediò quindi la basilica, per stanare i palestinesi; durante l’assedio scoppiò un incendio nella chiesa. Episodio certo triste, ma ciò che mi scandalizza e mi rattrista in questa vicenda non è il comportamento degli israeliani, ma quello dei palestinesi; sono stati loro a “violare” la chiesa, cercandovi rifugio ed entrandovi in armi, facendosi scudo della santità della chiesa, per sfuggire agli israeliani. Del resto cos’altro ci si può aspettare da una parte che ha usato bambini e ospedali come scudi umani a Gaza, nel conflitto contro Israele?
La chiesa è la più antica del mondo ancora in attività, voluta dall’imperatore Costantino nel 326. Entro con emozione attraverso la piccola porta, costruita in queste ridotte dimensioni probabilmente per impedire ai soldati di entrare a cavallo. Dopo la visita della chiesa, scendo nella Grotta della Natività, al piano inferiore della basilica. È un ambiente molto piccolo, affollato di fedeli e sacerdoti che, a turno, recitano preghiere, credo continuativamente. Riesco ad avvicinarmi solo per pochi secondi alla Cappella della Mangiatoia, che rappresenta la scena della natività.
Anche oggi è un giorno festivo, il terzo consecutivo per me, singolare coincidenza dovuta al susseguirsi del venerdì islamico, il sabato ebraico e la domenica cristiana, religione alcuni decenni fa prevalente in questa città (ora sono il 20%).
Torno nella piazza, dove noto la presenza di poliziotti palestinesi; militari israeliani qui non se ne vedono, almeno adesso. Ripresa la moto, mi avvio nuovamente verso il confine, per tornare in Israele.
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Dirigo verso nord e punto dritto al centro di Gerusalemme. Cerco di raggiungere il Muro del Pianto, ma non è semplice. Dopo un po’ mi ritrovo negli stretti vicoli della città vecchia, un labirinto che pare inestricabile; pazienza, approfittiamo per gustare un po’ l’atmosfera di questa antica città. Sono nel quartiere ebraico; il centro storico di Gerusalemme è diviso tradizionalmente in 4 quartieri: musulmano, cristiano, armeno, ebraico. Credo che la divisione non sia solo una questione storica, ma reale; comunque qui, nel quartiere ebraico, mi sembra di vedere in giro solo ebrei.
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Mi appare davanti il Monte degli Ulivi e, subito dopo, la dorata Cupola della Roccia e la cupola della moschea di Al-Aqsa.
La strada passa vicino all’ingresso nella piazza del Muro del Pianto. Oltre ovviamente non posso andare in moto, ma noto, sul marciapiede, alcune moto parcheggiate: si tratta di piccoli scooter, ma, formalmente, sono pur sempre moto come la mia; per scrupolo chiedo a un militare di guardia, che mi conferma che non c’è problema: posso lasciare la moto lì. Salgo sul marciapiede, passando (appena) tra i blocchi di cemento che impediscono il passaggio a veicoli più larghi di un metro, e parcheggio: sotto i mitra spianati dei soldati israeliani, dubito che corra rischi… a parte l’esplosione di una bomba.
Il Primo Tempio fu eretto dal re ebreo Salomone circa nel 1000 a.C., come sede dell’Arca dell’Alleanza; distrutto da Nabucodonosor II, re di Babilonia, nel 586, fu ricostruito (il Secondo Tempio) nel 515 a.C.; nel 70 d.C. fu distrutto dai romani, dopo una rivolta ebraica. Il Muro del Pianto non è altro che il muro occidentale della spianata del Monte del Tempio; infatti il re Erode (regnò dal 37 al 4 a.C.) fece costruire un muro intorno al monte e riempire di detriti lo spazio tra il muro e la montagna. In questo modo, in cima, si creò l’attuale grande spianata del Monte del Tempio. Dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme ad opera dei romani, questo muro è diventato un simbolo per gli ebrei, in quanto il luogo più vicino alla sede originaria del Tempio. Infatti, in seguito alla sua demolizione, gli ebrei furono mandati in esilio e quindi persero la cognizione del punto esatto in cui si trovava il Tempio; tornati a Gerusalemme, gli ebrei evitarono l’area della spianata, per timore di calpestare l’area più sacra del Tempio, l’ambiente in cui era posta l’Arca dell’Alleanza, dove potevano accedere solo i Grandi Sacerdoti. Cominciarono quindi a raccogliersi in preghiera presso questo muro esterno, detto anche Muro Occidentale (Lonely Planet, Israele e i Territori Palestinesi, 2007).
Sulla grande spianata occupata prima dal Tempio, sorgono adesso la Moschea di Al-Aqsa e la Cupola della Roccia, contenente la lastra di pietra (sacra all’ebraismo e all’islam) sulla quale Abramo stava per sacrificare il figlio Isacco e da dove Maometto (secondo l’islam) ascese al cielo.
Entro nella piazza, dopo gli inevitabili controlli: è un luogo molto sorvegliato, forse il luogo più simbolico di Israele. Noto alcune moto parcheggiate appena oltre l’ingresso (presumibilmente dei militari israeliani di guardia: dubito che altri possano farlo). La piazza è affollata: turisti di tutto il mondo, ebrei, soldati. Mi guardo intorno: numerose bandiere israeliane, sugli edifici circostanti, ricordano orgogliosamente che questa è terra d’Israele, da quando, durante la guerra dei 6 giorni del 1967, fu liberata dai paracadutisti israeliani e poi annessa nel 1980. Come si può pensare che Israele rinunci a un luogo simile, così importante per la sua storia?
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Torno alla moto, obiettivo la Porta di Damasco. Costeggio un lungo tratto delle mura di Gerusalemme; è il modo più semplice per raggiungere la porta, nella complessa struttura urbana della città: se la porta è attraverso le mura, allora seguendole non potrò non trovarla. La Porta di Damasco è il principale accesso alla città vecchia di Gerusalemme; è posta a un livello inferiore rispetto alla strada. Parcheggio la moto in quello che sembra un parcheggio per moto, sul marciapiede. Tutto intorno militari israeliani; agli incroci, sui marciapiedi, nelle aiuole, tutti in assetto di combattimento; è una situazione di “normale eccezionalità”, come uno stato di guerra permanente; e tutto intorno la vita che scorre normale, almeno fino a quando non succede qualcosa di grave.
La porta dà accesso al quartiere musulmano; superato il passaggio, si è nella tipica strada araba, affollata di venditori che espongono merce di vario genere sotto pensiline e tende per riparare dal sole, acquirenti che contrattano la merce, carretti che corrono di qua e di là; spiccano in particolare i dolci multicolori, ben in mostra su diversi banconi.
Dopo poche centinaia di metri (le distanze nella città vecchia sono limitate), svolto verso il quartiere cristiano, sempre nel Souq Khan as Zeit. Una targa trilingue (ebraico, arabo e… latino?) indica la storica “Via Dolorosa”. Lungo questa stretta via si snodano diverse stazioni della Passione di Gesù; me lo ricordano alcune targhe in inglese (“8th station – Via Dolorosa”) e il passaggio di pellegrini in processione. Immagino che qui, tra poche settimane, nel periodo della Pasqua, ci sarà ancora più gente.
Arrivo al Santo Sepolcro. Questa chiesa fu edificata nel luogo del Calvario (o Golgota), dove Gesù è stato crocifisso, è morto ed è risorto; a quei tempi questo luogo era al di fuori delle mura cittadine
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Ci sono state contese (e ancora ogni tanto ci sono) per il controllo di questa chiesa tra le diverse comunità cristiane. Nel 1852 il sultano turco che allora governava Gerusalemme emanò un decreto che sanciva lo Status Quo, cioè il mantenimento della situazione stabilita nel 1767, che assegnava ai greci ortodossi la maggior parte della Basilica del Santo Sepolcro; ancora oggi vige lo Status Quo. Per evitare contrasti tra i diversi cristiani, le chiavi della chiesa sono affidate a una famiglia musulmana del luogo, che ogni mattina apre le porte e le richiude la sera.
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La mia visita a Gerusalemme è finita; torno a piedi alla Porta di Damasco, dove riprendo la moto, e mi dirigo verso il Mar Morto.
Uscendo da Gerusalemme verso est, mi aspetto di trovare un confine con i Territori Palestinesi; ma il confine qui è “sfumato”. Innanzitutto il muro non c’è o almeno non è completato, tant’è che arrivo a Gerico senza alcun posto di blocco israeliano. Inoltre questo è proprio uno dei punti più “caldi” per la definizione dei confini e uno degli esempi più eclatanti del comportamento di Israele riguardo gli insediamenti; comportamento che mi pare quanto meno “scorretto”. Sono ormai fuori da Gerusalemme o, per essere più precisi, da Gerusalemme Est, il territorio occupato da Israele dopo la (vittoriosa, come tutte) guerra dei 6 giorni del 1967 (e annesso nel 1980). Ma, alto sulle colline, vedo il contestatissimo insediamento di Maale
Adummim. È il più grande insediamento ebraico della Cisgiordania; costruito nel 1976, si estende su 50 km2 e ha 30.000 abitanti, che attingono alle limitate risorse idriche della Cisgiordania per creare un ambiente lussureggiante. In diverse occasioni il governo israeliano ha manifestato l’intenzione di ampliare i confini di Gerusalemme fino a comprendere questo insediamento, che è ben più a est della tradizionale area della città. Basta guardare una cartina della Cisgiordania o anche solo per me riflettere su quanti chilometri ho percorso dal centro della città e quanti pochi ormai ne manchino al Mar Morto, per comprendere che questo progetto quasi taglia in due la Cisgiordania, con Nablus e Ramallah e la maggior parte del territorio a nord, ed Hebron e Betlemme a sud. Un colpo quasi mortale alle possibilità di un futuro Stato Palestinese, con un territorio “decente”. Mi pare proprio, da parte israeliana, una mancanza di visione del futuro, un tarpare le ali alla speranza di un popolo (il palestinese), un bruciare le (non molte) possibilità di pace, fondate (ormai anche molti israeliani dovrebbero averlo capito) sulla concreta ipotesi di uno Stato palestinese, sia pure limitato nei confini, anche senza Gerusalemme, proclamata capitale unica e indivisibile di Israele, ma almeno con un territorio, appunto “decente”, non a macchia di leopardo, ferito e “umiliato” dagli insediamenti israeliani.
un atteggiamento proprio indisponente e che fa rabbia; e se fa rabbia a me, che riconosco la fondamentale ragione di Israele nel suo lungo conflitto con gli arabi, a me che in questo territorio passo appena due giorni, quanta rabbia fa a un giovane palestinese che qui è nato e ci vive? Non può esserci pace senza una prospettiva concreta.
Supero Maale Adummim: la discesa si fa ripida verso il Mar Morto e l’ambiente ancora più arido.
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Arrivo ad un punto in cui una grande scritta, incisa sulla roccia, segnala la quota 0: “SEA LEVEL” è scritto in inglese e (presumo) in ebraico e arabo. Si ritorna sotto il livello del mare. Il caldo e l’afa aumentano; la temperatura arriva a 32°, ma è l’afa quella più fastidiosa: come una cappa si stende sulla valle
del Giordano.
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Arrivo a Gerico. È considerata la città più antica del mondo ancora abitata (risale a 10.000 anni fa), oltre che quella posta alla minore altitudine (-250 m). Noto alcuni grandi alberghi (sembrano di lusso) sul viale di accesso alla città. La città non offre granché; il sito archeologico è fuori dall’attuale centro abitato, che mi dà l’impressione di estendersi in modo caotico.
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Percorro la valle del Giordano verso nord, verso lo stesso valico di frontiera dal quale sono entrato in Israele. Il terreno sale, ma molto lentamente e resto quindi ampiamente sotto il livello del mare; il caldo è opprimente e soprattutto l’afa non molla. Sono vicino al fiume, ma non riesco a vederlo; più che altro, ne intuisco la presenza, poiché (sia pure attraverso la foschia) vedo le alture della Giordania oltre il fiume e soprattutto una lunga, ininterrotta sequenza di filo spinato e torrette di controllo: tutto il fiume è inavvicinabile, per motivi militari.
Arrivo al confine tra Territori Palestinesi e Israele: anche questo, come gli altri, è presidiato solo dagli israeliani. I controlli non sono molto lunghi e, dopo pochi chilometri, giungo al punto da dove sono passato ieri mattina: l’incrocio che conduce al vicino posto di confine. Stanno per terminare i miei due giorni in Israele (e Territori Palestinesi); un tempo breve, ma intenso, un concentrato di emozioni per 661 km.
Sono al confine. Uscire da Israele è più semplice che entrarci; i controlli sono severi comunque, ma un po’ più rapido lo è, come è logico che sia: il pericolo maggiore, per questo Stato sotto assedio, viene da quello che entra nel suo territorio, non da ciò che vi esce. Anche questa volta chiedo agli israeliani di non timbrare il mio passaporto: nessun problema.
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All’ingresso della Giordania pago per la quarta volta in 2 giorni il “famoso” balzello di 20 dinari (oltre ai due passaggi di confine ad Aqaba e i due tra Giordania e Siria; per un totale quindi, se non ricordo male, di 160 dinari per 8 passaggi); una tassa piccola (se per una volta sola), ma un po’ troppo frequente. Chiedo al doganiere se fanno abbonamenti per i clienti abituali, ma lui forse non coglie l’ironia. A mia richiesta, nessun timbro sul passaporto anche stavolta.
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