BALCANI
L'Europa frammentata
15 giorni in giro per i Balcani,
per visitare una zona d'Europa prima solo sfiorata nei miei
precedenti viaggi in moto.
Certo, in 15 giorni non è
possibile visitare approfonditamente tutti i 14 Stati attraversati
in questo viaggio: si potrebbero dedicare ad ognuno più
giorni.
Ma, averli attraversati così
rapidamente in sequenza, mi ha permessa di operare confronti,
che nell'immediatezza degli eventi, mi hanno permesso, crede,
di apprezzare di più certe differenze e similitudini.
Ed è un insieme di sensazioni, impressioni ed emozioni
che mi restano dentro.
Italia, Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina,
Montenegro, Albania, Kosovo, Macedonia, Serbia, Romania, Moldavia,
Transdnistria, di nuovo Moldavia e Romania,
Bulgaria, Turchia, Grecia, infine di nuovo Bulgaria,
Serbia, Croazia, Slovenia, Italia.
Entro nei Balcani da Trieste
e quindi il primo Stato è la
- Slovenia.
Attraverso il confine sloveno senza alcuna formalità;
non è nemmeno necessario fermarsi; gli edifici di confine
sono solo vuoti ricordi di un tempo che spero non tornerà
mai più. Ma mi fermo ugualmente, riflettendo sul fatto
che questo è solo il primo dei 21 confini che dovrò
attraversare in questo viaggio; e i successivi non saranno
così semplici, anzi alcuni è prevedibile che
saranno piuttosto "complicati".
In Slovenia ho previsto solo
di far tappa per la notte, ma incontro due amici: Tomaz, il
motociclista sloveno che rivedo dopo il viaggio fatto insieme
l'anno scorso in
Islanda, con cui ho passato una serata a parlare del viaggio
passato e dei progetti futuri; e giannipiuma, incontrato prima
solo virtualmente sul forum di Mototurismo, e che mi ha accompagnato
nei km dalla sua Monfalcone alla Slovenia.
Una tranquilla statale, attraverso
il Carso, mi porta verso la
- Croazia.
La Croazia, per noi italiani, è soprattutto la costa:
un'infinità di isole e baie su un mare azzurro. Ma
non è questo quello che cerco. E così, diretto
verso la Bosnia, percorro una strada interna, e visito i laghi
di Plitvice.
I laghi di Plitvice (il più
antico parco nazionale della Croazia) sono uno straordinario
complesso di laghi e corsi d'acqua in un territorio carsico;
16 laghi a differenti altitudini (tra 502 e 636 m), collegati
da numerose cascate. Questo fenomeno particolare è
generato dalla sedimentazione del carbonato di calcio presente
nelle acque, che "pietrifica" il muschio.
Percorro
a piedi un tratto di bosco;all'ingresso
spiego all'addetta che sono in moto e voglio solo fare una
breve visita, senza inoltrarmi nel parco: mi fa passare senza
biglietto.
Giungo quindi al primo lago,
presso la cui riva sono ormeggiati alcuni battelli per turisti.Per
visitare i laghi per bene dovrei avere a disposizione diverse
ore ... oltre alla voglia di camminare parecchio lungo i sentieri
del parco.
Tornato alla moto, dirigo verso
la vicina
- Bosnia e Erzegovina.
Avvisto presto le prime montagne di questo paese,mentre
il pensiero non può non andare alle tragiche vicende
che per tanti anni hanno portato alla ribalta questo martoriato
angolo d'Europa.
Il passaggio
di frontiera è veloce; entro quindi in Bosnia-Erzegovina;
precisamente sono nella federazione Croato-Musulmana, una
delle due entità che compongono la Bosnia, prodotto
del difficile equilibrio tra le 3 etnie costituenti questo
Stato. Il passaggio di frontiera, stavolta, mi pare qualcosa
di più di un segno su una mappa; ho davvero l'impressione,
inoltrandomi in queste terre, di qualcosa di diverso.
A ricordarmi le differenze
di questi paesi, mi vengono incontro sul mio cammino gli inconfondibili
profili delle prime moschee presenti numerose, alternate con
più rade chiese cristiane.
Passato Bihac, la strada continua
in un bel paesaggio tra le montagne,fino
a Jaice; entro per qualche km nella Repubblica serba (l'altra
entità della Bosnia); me lo ricordano le numerose bandiere
serbe presenti, a voler riaffermare una propria identità,
così come pochi km prima quelle croate mi ricordavano
che ero in una zona croata.
A Jaice, visito la fortezzae
la spettacolare cascata. Questa è formata dal fiume
Pliva che si getta nel Vrbas.
Ripresa la moto, dirigo (attraverso
la valle del Vrbas)su
Travnik. La moschea di questa città (Sarena Dzamija,
cioè moschea colorata) ha la particolarità (oltre
alle insolite decorazioni colorate) che al piano inferiore
è presente un portico con negozi, unico esempio nell'architettura
ottomana di edificio adibito ad usi sia sacri che profani.
Dirigo quindi verso la Sarajevo.Grande
è l'emozione quando, finalmente, avvisto la capitale
della Bosnia; questa città diventata un simbolo dei
feroci conflitti interetnici scoppiati alla fine dello scorso
millennio nei Balcani.
Il sole è ormai basso
quando percorro il lungo viale di accesso alla città,
tristemente noto ai tempi del conflitto come il "viale
dei cecchini". Sono ormai pochi i segni della guerra
trascorsa e noto che la città è un brulicare
di cantieri, che costruiscono moderni grattacieli.
Nel centro storico di Sarajevo,la
moschea principale (Begova Dzamija) si annuncia da
lontano col suo alto minareto,ma
si rivela completamente alla vista solo dopo aver superato
l'angusto varco nel muro perimetrale che la cingee
che racchiude una tranquillo cortile, dove sono presenti,
il sadrvan (fontana per le abluzioni rituali)e
l'abdeshtana (la stanza per le abluzioni invernali).
Mi colpisce il cartello presente
all'ingresso, in cui, oltre ai soliti consigli sull'abbigliamento
da indossare (rispettoso della sacralità del luogo),
c'è un divieto di introdurre fucili automatici,che
mi fa venire in mente la recente guerra, quando anche le moschee
di questa città erano "obiettivi militari".
Passeggio per le vie di Sarajevo,
col fresco della sera che mitiga la calura del giorno; è
una splendida città, in cui, accanto alle moschee,
si vedono chiese ortodosse e cattoliche,simbolo
di una convivenza di fedi diverse che nemmeno la feroce guerra
civile è riuscita a cancellare. La cosa che più
mi colpisce mentre giro per le animate vie del centro, piene
di negozi e di gente, è l'abbigliamento delle donne:
credo che Sarajevo sia una delle poche città al mondo
in cui è possibile incontrare a passeggio per strada
(anche insieme) donne velate, accanto ad altre in minigonna;
segno di diversi stili di vita, che convivono (finalmente)
senza problemi. Noto che comunque anche le donne velate (ma
quasi mai completamente) si presentano perfettamente truccate.
Interessante anche il grande
edificio dei bagni pubblici, in funzione dal 1529, i primi
forniti di acqua corrente.
Tornando in albergo, è
ormai sera e la sapiente illuminazione fa risaltare di una
luce dorata gli edifici di questa bella città.
Riparto
verso il Montenegro, attraverso la zona serba della
Bosnia. La strada percorre l'angusta valle della Drina:è
stretta, ma ancora in discrete condizioni. Entro in
- Montenegro e supero il
canyon con un ponte sospeso;la
strada continua con una sequenza di gallerie scavate nella viva
roccia,fino
ad arrivare ad un lungo lago artificiale.
Il bello
però deve ancora arrivare. Giungo alla deviazione che
porta al monte Durmitor, il monte più alto del Montenegro
e il secondo delle Alpi Dinariche (m 2.522).
Ho qualche difficoltà
ad individuarla, poichè si tratta di una galleria proprio
accanto alla strada principale.
Il percorso prosegue con tornanti
in galleria e in breve salgo di diverse centinaia di metri,
pur restando la strada (molto tortuosa) vicinissima al lago.
Continuo
la salita verso il monte Durmitor (parco nazionale), tra mandrie
di cavalli che vagano liberi,verdi
prati e boschi,fino
ad arrivare a quasi 2.000 m, ai piedi della cima.Il
traffico è praticamente assente, solo poche abitazioni
di montagna; mi meraviglio di trovare un ... campetto di basket
sulla strada!Arrivo
quindi a Zabljak, principale località di soggiorno
nel monte Durmitor.
Da qui mi dirigo verso il vicino
canyon del fiume Tara (uno dei rami sorgenti della Drina).
Si tratta del canyon più profondo ed esteso d'Europa
(82 km), che raggiunge in alcuni punti i 1.300 m di strapiombo.
La strada scende fino al fondo
del canyon, per poi risalire il fiume per circa 50 km, in
un paesaggio di selvaggia bellezza.
Uscito dalla valle, mi fermo
a visitare il monastero Moraca, isolato tra i monti.Superato
il muro del recinto,si
respira un'atmosfera di pace e serenità, con la chiesa
circondata dai prati e dagli ambienti conventuali.All'esterno
noto un semplice quanto efficace "frigo naturale",
per tenere in fresco le bevande.
Attraverso un'altra stretta
valle,la
strada mi porta infine alla pianura e a Podgorica, la capitale
del Montenegro. Non ho previsto di fermarmi in questa città,
e quindi dirigo subito verso Cetinje, l'antica capitale, in
mezzo alle montagne.
Giunto alla sua piazza principale
(Malo Guvno),raggiungo
gli edifici storici principali, ora adibiti a musei.Una
particolarità che mi colpisce di questa città
è che basta fare pochi metri dalla piazza principale
per trovarsi davvero in mezzo alle montagne e alla natura,
nei boschi.Raggiungo
in breve il vicino monastero, che sembra fuori dal mondo,
quando invece è a pochi metri dal centro cittadino.
Ormai però stanno calando
le prime ombre della sera e devo trovare da dormire; ad un
primo sopralluogo, non trovo molte possibilità di alloggio
e decido quindi di puntare su Cattaro.
La strada si dirige verso le
montagne e ben presto posso ammirare un bel panorama su Cetinje.Ma
non è il caso di indugiare e riprendo quindi il percorso.
Ben presto la strada sale decisa
sulle montagne, con una interminabile sequenza di curve e
tornanti. La media è necessariamente bassa; non incontro
molti paesi e comincio a chiedermi se troverò un posto
per dormire.
Il paesaggio è molto
bello, ma il sole, ormai basso, è proprio davanti ai
miei occhi e in queste circostanze non ci sono occhiali da
sole che tengano.
Raggiungo il valico a quasi
1.200 metri: mi rendo conto che non è il caso di cercare
di arrivare a Cattaro stasera e così, al primo paese,
chiedo di un alloggio. Mi dicono che, al prossimo paese, c'è
un ristorante che ha delle camere.
Riprendo la strada, che adesso
comincia una discesa ancora più ripida e tortuosa della
salita, col sole sempre più fastidioso negli occhi,e
finalmente arrivo a Njegusi, dove trovo alloggio.
Parcheggio la moto nel cortile
del ristorante-albergo.Il
posto è estremamente tranquillo: una valle tra le montagne.L'albergo
non è un granchè: una stanza enorme, niente
serratura, arredamento in parte "riciclato"e
bagno nel corridoio. Ma ... per 10 euro.
Potrei entrare in Kosovo direttamente
dal Montenegro, puntando su Pec; è la strada più
corta e più facile.
Ma non vado in moto per cercare
le strade più corte e più facili e ho quindi
deciso di passare dall'Albania, pur memore della disastrosa
condizione delle strade in quel paese, già sperimentata
nel mio viaggio
del 2006 in quello Stato.
La strada che scende verso
Cattaro è estremamente tortuosa e ripida. Davvero spettacolare,
scende tra le montagne verso il mare, stretta, probabilmente
ancora come l'avevano costruita gli austriaci.
Dopo pochi km avvisto le Bocche
di Cattaro; la strada è ancora a circa m 1.000 di altezza,
ma il fiordo sembra vicinissimo, sotto di me. E' ancora presto
e vedo l'ombra delle ripide montagne che, gradualmente, si
ritira dalle coste delle Bocche. Panorama magnifico!
Affronto con calma la ripida
discesa e, dopo un'infinità di tornanti, giungo a Cattaro.
La città è racchiusa nelle sue possenti fortificazioni
(costruite dai veneziani, cui la città appartenne dal
1420 al 1797) e presenta un centro storico intatto, molto
bello.E'
piacevole passeggiare per le sue tranquille vie, anche perchè,
strette tra gli alti palazzi, vi abbonda l'ombra.
Ma la strada mi attende e così,
dopo aver fatto colazione comodamente seduto ad uno dei tanti
bar che affollano le strade del centro, riparto per costeggiare
la parte interna delle Bocche di Cattaro.
Si tratta di un ampio fiordo,
il più vasto del Mediterraneo, che è diviso
in 3 bacini: il Porto interno, quello centrale e quello esterno.
Il panorama è spettacolare,
con le alte montagne che si inabissano, ripide, nelle sue
acque profonde. La riva, data la stagione, è affollata
di turisti e noto i frequenti piccoli moli privati (o quasi)
lungo la costa, dove quasi ogni abitazione ha una discesa
a mare.Dopo
qualche km raggiungo lo stretto canale che separa le Bocche
interne da quelle centrali,lungo
il quale è presente il traghetto che permette di evitare
di fare il giro delle Bocche.
Dirigo quindi, lungo la litoranea,
verso Budva che, affollata località balneare,supero
senza fermarmi (anche se ci sarebbe il centro fortificato
da visitare), per poi arrivare all'incantevole villaggio di
Sveti Stefan. Si tratta di un piccolo borgo che, progressivamente
spopolatosi, è stato completamente trasformato (nel
1952) in albergo.Il
posto è davvero suggestivo, anche se, forse, ha perso
la sua "naturalità" con la trasformazione
subita. Riesco a fare qualche foto tranquilla prima dell'arrivo
di un bus di turisti.
La costa in effetti è
piuttosto turistica, anche se bella; dopo pochi km una strada
nuova e veloce mi riporta verso Podgorica, superando con una
galleria i rilievi costieri.
Nella capitale montenegrina
faccio rifornimento (per evitare di avere questo problema
in Albania, dove non voglio cambiare valuta) e quindi dirigo
verso il vicino lago di Scutari e confine.
La strada per l'Albania diventa
ben presto poco più di un viottolo.Ma
pur sempre meglio di quello che mi aspetta in quel paese;
passato il confine, infatti, vedo che le condizioni delle
strade in questo Stato sembrano non essere migliorate dal
mio viaggio del
2006. Entro in
- Albania.
Arrivato a Scutari(la
principale città dell'Albania settentrionale), imbocco
la strada per il Kosovo. Chiedo ad alcuni taxi fermi in piazza
notizia sulla condizione della strada e quanto tempo ci voglia
per percorrere i 170 km fino al confine; ricevo notizie poco
rassicuranti.
La strada è semplicemente
terrificante; sembra una via dopo un bombardamento. Non buche,
infatti, ma veri crateri si aprono numerosi e quasi mai segnalati.
Una delle insidie maggiori, infatti, è proprio questa;
capita magari di trovare qualche km in buono stato, che invoglia
pure a una velocità discreta; poi, improvvisamente,
buche e tratti talmente dissestati da rischiare di finire
fuori strada o di rompere qualcosa.
Il paesaggio è selvaggio,
con la strada che sale tra le montagne quasi disabitate, costeggiando
a volte il fiume Drin che, interrotto da numerosi sbarramenti,
forma spesso lunghi e suggestivi laghi artificiali.
Diciamo che, una volta prestata
la massima attenzione alla strada, il percorso può
essere definito bello.
Provoco grande sorpresa nei
poveri villaggi che attraverso. Ricevo ovunque una sensazione
di amicizia e di sincera curiosità; in un paese, fermatomi
all'ombra per ristorarmi con bevande e provviste di bordo,
un ambulante si avvicina offrendomi frutta fresca e, nonostante
la mia insistenza, rifiuta di essere pagato; altri chiedono
informazioni sulla mia provenienza, ma mai in modo assillante
o fastidioso.
L'entusiasmo più coinvolgente
lo trovo, però, come al solito, nei bambini; mi colpisce
in particolare un incontro tra le montagne con 3 bambini,
intenti a pascolare un gregge; chiedono una foto con la moto,
anche se, ovviamente, la foto gliela potrò solo far
vedere; ma a loro bene così e quindi, dopo aver acconsentito,
me li ritrovo in un attimo tutti e 3 sulla moto.
Credo però che i bambini
siano intenti anche a strani giochi, come desumo da una serie
di sassi messi proprio sulla linea di mezzeria; una coincidenza
troppo strana per pensare che siano caduti dalle vicine montagne:
come se non ci fossero già abbastanza pericoli su questa
strada!
Avvicinandosi al Kosovo, la
strada peggiora ancora, anche a causa di alcuni lavori in
corso che dovrebbero (quando finiti!) rendere finalmente questa
strada adeguata alla sua funzione di principale collegamento
tra l'Albania e l' "albanese" Kosovo. Intanto però,
mi tocca fare lo slalom tra i cantieri e percorrere diversi
km di insidioso sterrato, tra i sassi.
Arrivo infine alla frontiera
(h 6.30 per percorrere 200 km in Albania), non senza un po'
di apprensione. Il
- Kosovo è
un punto centrale di questo viaggio, anzi proprio la molla
che ha fatto scattare il desiderio di intraprenderlo.
In molti hanno tentato di dissuadermi
dal recarmici, mettendomi in guardia contro i pericoli di
un paese da poco uscito da una guerra civile e dove ancora,
ogni tanto, scoppiano scontri tra la maggioranza albanese
e la minoranza serba; oltre alle tensioni originate dalla
recentissima dichiarazione di indipendenza, fortemente contestata
dalla Serbia e dai serbi.
Ma il passaggio di frontiera
si rivela abbastanza semplice e rapido: non sono presenti
militari del Kosovo; infatti le frontiere sono presidiate
(come buona parte del paese) dalla missione ONU della KFOR
(presente anche un contingente italiano).
Presento il passaporto, i documenti
della moto, stipulo la necessaria assicurazione temporanea
(qui non vale la carta verde) ed entro in Kosovo.
La prima sorpresa è
positiva: la strada è perfetta! E' finita la tortura
delle strade albanesi.Percorro
un altopiano a circa 400 m e dopo meno di 20 km giungo a Prizren,
la seconda città del Kosovo.Oltre
12 ore di moto mi consigliano di trovare subito un alloggio:
punto verso il centro, chiedo a qualche passante, mi guardo
in giro e trovo subito un albergo, dal nome significativo
"Tirana". Cerco un posto sicuro per la notte anche
per la moto e l'addetto me la fa parcheggiare proprio di fronte
all'ingresso, in un posto che poi stanotte "chiuderà",
sbarrandolo.
Prizren si presenta come una
bella città, con un caratteristico centro storico,
dalla chiara impronta turca. Interessante il ponte anticoe
la moschea Sinan Pasha.Ma
gli effetti dei tragici avvenimenti del Kosovo si vedono quando
cerco di visitare anche la chiesa ortodossa, indicata dalla
guida, la Sveta Bogorodica Ljeviska. Non disponendo
di carte dettagliate, chiedo in giro e la prima difficoltà
è trovarla: i cittadini di Prizren infatti non sembrano
molto informati al riguardo, o forse sono poco interessati,
anche perchè sono ormai quasi tutti mussulmani. Trovata
la chiesa, posso "toccare con mano" la situazione
dei luoghi di culto serbo-ortodossi in Kosovo. Fa proprio
tristezza vederla così: chiusa, abbandonata e circondata
dal filo spinato.Come
anche altre chiese in città.
Tornato in centro, noto che
la sera sembra molto animato, con la gente a passeggio, i
locali pieni; solo la presenza, discreta ma costante, dei
militarei della KFOR e delle loro camionette (a Prizren sono
di stanza i tedeschi) ricorda la situazione "anomala"
del Kosovo.Ad
animare la piazza contribuisce anche un concerto organizzato
dall'UNHCR in occasione dell'odierno "World Refugee Day".
Cena in piazza, ottima ed economica.Tornato
in albergo, dopo un po' vengo svegliato da forti rumori e
grida.
Mi affaccio alla finestra,
mezzo addormentato (quando viaggio mi corico presto, in modo
da svegliarmi all'alba e poter sfruttare al massimo la luce
per viaggiare in moto) e comprendo quello che è accaduto:
la Turchia ha superato il turno nell'odierna gara dei campionati
europei di calcio e la folla sta festeggiando con caroselli
di auto, sventolando bandiere turche; credo che questa immagine
chiarisca più di qualunque discorso dove sia il cuore
dei kosovari.
Ritrovata la moto dove l'avevo
lasciata,mi
dirigo verso Pec. Il Kosovo è piccolo (Km² 10.887)
e le distanze da coprire quindi, nonostante sia prevalentemente
montuoso, non sono notevoli.
La strada corre a poca distanza
dal confine con l'Albania, posto alla mia sinistra sul crinale
delle montagne. Noto le frequenti bandiere albanesi, anche
sui minareti.Ma
quello che mi colpisce di più è un cartello
sul ... passaggio di carri armati,chiaro
monito che, nonostante le possibili apparenze, questo non
è un paese normale, ma soggetto ad amministrazione
ONU e soprattutto sorvegliato dalla missione militare della
KFOR, senza la quale (credo) le violenze e la guerra civile
ricomincerebbero.
Poco prima di Pec è
il monastero di Decani, presso l'omonimo paese. Giro per il
centro abitato cercando indicazioni, ma non vedo nulla: eppure
il monastero è uno dei più importanti della
regione. Risolvo chiedendo indicazioni e, dopo qualche tentativo,
trovo la strada giusta. Mi rendo conto che a molti degli albanesi
del Kosovo importa ben poco del grande patrimonio culturale
costituito dai monasteri; situazione comprensibile (anche
se non condivisibile) viste le violenze che gli albanesi hanno
subito dai serbi, che hanno portato (mi sembra) a rimuovere
(mentalmente, se non fisicamente) questa parte della storia
del Kosovo.
Arrivato alla strada che porta
all'ingresso del monastero, trovo il primo posto di blocco
della mia visita del Kosovo.A
presidiarlo, in completa tenuta da combattimento, sono (come
mi ero documentato prima del viaggio) militari del contingente
italiano della KFOR.
E' la prima volta che, in un
viaggio all'estero, incontro militari italiani. Anche per
loro però credo sia una prima volta, perchè
credo che non abbiano mai visto qui un mototurista. Sono infatti
l'unico turista e l'unico motociclista presente. Ogni tanto
passano alcuni veicoli di operai diretti al monastero.
Fin dall'Italia, viaggio con
le bandiere della moto ben aperte (quella europea e quella
italiana): è quindi ben evidente a chiunque mi vede,
anche da lontano, che sono un italiano. Mi avvicino al posto
di blocco rallentando e, giunto al segnale, mi fermo, attendendo
istruzioni.
Noto la sorpresa nei giovani
visi dei militari che mi osservano. Al cenno di avanzare,
mi avvicino e li saluto: "Sono italiano, posso visitare
il monastero?" Consegno quindi il passaporto e i militari
chiamano al telefono per avere istruzioni: immagino che per
loro non sia una situazione frequente!
Nell'attesa di avere il via
libera, chiacchiero con i militari: alcuni di loro sono qui
da molti mesi e, per diversi di loro (nonostante la giovane
età), non è la prima missione del genere (Afghanistan,
Libano, ...). Giunge quindi l'ok e mi dirigo con la moto verso
il monastero. All'ingresso c'è un altro posto di blocco,
dove lascio il passaporto e la moto (unico veicolo nel parcheggio).Entro
quindi finalmente nel monastero di Decani, fondato all'inizio
del XIV sec. da un re serbo.
Appena dentro mi colpisce l'atmosfera
di pace e serenità, in forte contrasto con tutti i
posti di blocco presenti all'esterno. All'interno del recinto
(la cui funzione di protezione devo amaramente constatare
non si è esaurita nel corso dei secoli), spicca la
mole della chiesa, su un prato verdissimo, ben curato.Intorno
alla chiesa, gli ambienti conventuali.Entro
a visitare la chiesa, le cui pareti interne sono (come si
usa nelle chiese ortodosse) completamente affrescate da figure
religiose. Purtroppo, come mi succederà quasi sempre
in questo viaggio, non è possibile fotografare l'interno.
Parlo col pope, che mi conferma
che, se non ci fossero i militari a proteggere il monastero,
gli "albanesi" (cioè i kosovari di etnia
albanese) deprederebbero il monastero. Noto serenità
mista a rassegnazione nelle sue parole; è molto gentile:
mi apre la chiesa e mi spiega i vari particolari del monumento.
Gli anni trascorsi a contatto con i militari italiani di guardia
gli hanno fatto imparare piuttosto bene la nostra lingua e
quindi riusciamo a conversare agevolmente.
Di fronte ad una mia richiesta,
mi dice anche che sono molto impegnati nella preparazione
di icone, data la notevole richiesta dei militari della KFOR,
tanto che, per averne una, è necessario attendere quasi
un anno.
Uscito dal monastero, riprendo
i mie documenti e la moto, ripasso i due posti di blocco e
mi dirigo verso Pec.
Arrivato in città, punto
verso il centro. Giunto, dopo qualche giro nei vicoli,di
fronte alla moschea principale, il gentile custode, salutandomi
con entusiasmo e ringraziando per i contributi ricevuti (dall'ONU,
presumo) per la ricostruzione della moschea (che, come tante
altre, aveva subito danni nel corso della repressione serba
nel Kosovo), mi apre la moschea, facendomela visitare.E'
bello questa passare, in pochi metri, da un monastero ortodosso
a una moschea islamica. Chissà quando, però,
quello che io apprezzo come una diversità culturale
e storica (oltre che ovviamente una legittima differenza religiosa),
sarà percepito dalla popolazione locale allo stesso
modo. Temo che non sia una questione di anni, ma di generazioni.
Uscito da Pec, mi dirigo verso
il monumento più importante del Kosovo per la cultura
serba : il monastero Patrijarsija , cioè l'antico
patriarcato serbo.
Nuovo posto di blocco (anche
questo presidiato dagli italiani), nuova identica trafila
per entrare, ma stavolta c'è un intoppo: per poter
entrare è necessario chiedere il permesso alla custode
del monastero, che i militari non riescono a contattare. Dopo
aver aspettato un po' (e chiacchierato con i soldati), mi
consigliano (nell'attesa) di fare un giro nei dintorni, indicandomi
una vicina valle molto bella.
Ed è così che
scopro un percorso veramente interessante, che parte da Pec
e, dopo essere passato davanti alle lunghe mura del monastero
(con la solita recinzione aggiunta del filo spinato),si
dirige verso il vicino Montenegro, lungo una valle suggestiva.
La strada si apre il varco nella viva roccia, attraverso la
stretta valle.Questa
strada rappresenta la via più agevole per entrare in
Kosovo dal Montenegro (senza il faticoso passaggio dall'Albania
che ho fatto ieri), anche se, comunque, è un percorso
di montagna. Mentre la percorro tranquillamente in moto, penso
alle migliaia di profughi kosovari che, spinti dai massacri
e dalla pulizia etnica operata dai militari serbi, fuggivano
tra queste montagne verso il Montenegro (o l'Albania o la
Macedonia).
Arrivato ad una cascata,decido
di tornare indietro: spero che i soldati siano riusciti a
contattare la custode del monastero.
Così è infatti
e quindi posso visitare il famoso Patriarcato di Pec. Il monastero
risale al XII sec., quando l'arcivescovado ortodosso di Zica
fondò la chiesa dei SS Apostoli, per sottrarre la regione
alla giurisdizione dell'arcivescovo greco di Ocrida; nel 1253
vi fu portata anche la sede dell'arcivescovo serbo e nel 1346
l'imperatore serbo Dusan la elevò al rango di patriarcato
autocefalo. Il patriarcato fu abolito nel 1766 e ristabilito
nel 1920 a Belgrado.
Del vero e proprio Patriarcato
restano solo le fondamenta, mentre sono intatte la sala dei
sinodi e le quattro chiese affiancate.
Purtroppo la custode non permette
nessuna foto.Dopo
aver visitato il Patriarcato di Pec, mi rendo ancora maggiormente
conto di quanto sia importante il Kosovo per il popolo serbo
e questo luogo in particolare e quanto doloroso rappresenti
per loro, quindi, il fatto che sia ormai in "terra straniera";
è la culla della nazione, rappresenta la nascita della
loro Chiesa.
Purtroppo troppo tardi, però,
questo popolo è riuscito a liberarsi di governanti
tanto inadeguati quanto criminali, che lo hanno portato a
subire questa, ormai irreversibile, perdita.
Dopo Pec, dirigo verso la capitale
del Kosovo, Pristina, attraversando l'area centrale del Kosovo,
lungo un altopiano che sale gradatamente dai circa 500 m di
Pec agli oltre 600 di Pristina.
Fa caldo e, anche se quella
di oggi è una tappa breve (insolitamente breve per
me), mi sento stanco. In questo caso meglio fermarsi. La stanchezza
non arriva con i km: può arrivare quando meno te lo
aspetti. Come ho fatto anche 2.700 km in 24 ore, senza avvertire
stanchezza, così posso avvertire stanchezza dopo appena
200, come oggi.
Individuo una stazione di servizio,
con delle belle panche all'ombra; mi fermo, compro dell'acqua
fresca e mi stendo a riposare. Il cameriere del bar mi chiede
se mi serve qualcosa: avevo notato che fanno un'espresso italiano
(rarità all'estero): gli rispondo "un caffè
tra 20 minuti".
Ritemprato dal breve riposo
(e dal caffè), riprendo la strada verso Pristina. Poco
prima della capitale del Kosovo, attraverso la località
di Kosovo Polje. Guardandomi intorno, non sembra niente di
speciale, ma questo è un posto molto importante per
la storia della Serbia. Qui (o più precisamente nella
piana che si estende a nord) si tenne una importante battaglia
(Kosovo
Polje, o Piana dei Merli), tra l'esercito serbo (insieme
agli alleati cristiano bosniaci) e quello ottomano. Questi
ultimi vinsero, i serbi subirono gravissime perdite e fu l'inizio
della fine per il regno di Serbia, completamente conquistato
dagli ottomani nel 1459.
Questa battaglia è considerata
dai Serbi (nonostante la sconfitta) come fondante della loro
identità nazionale; il principe Lazar (che comandava
l'esercito) fu canonizzato dalla chiesa ortodossa serba. Nel
1989, 600 anni dopo, qui Milosevic (allora presidente della
Serbia, poco prima che scoppiasse il grave conflitto tra le
repubbliche federate) tenne un discorso,
nell'ambito della sua politica nazionalistica, esaltando il
ruolo della Serbia.
Tutti questi pensieri si rincorrono
nella mia mente, quando avvisto Pristina, la capitale di quel
Kosovo ormai non più serbo.
La cosa più interessante
che ho previsto di visitare a Pristina non è in città,
ma qualche km a sud: un monastero a Gracanica.
Decido quindi di raggiungere
quella località, per poi tornare verso il centro città,
trovare alloggio e visitare Pristina con calma (oggi ho fatto
presto: non sono ancora le 15).
Ma le cose vanno diversamente:
complici la mancanza di carte dettagliate nel gps, l'assoluta
mancanza di indicazioni stradali (Gracanica si trova in una
delle poche zone serbe del Kosovo e in Kosovo la segnaletica
stradale non abbonda certo di indicazioni verso i monasteri),
dopo aver imboccato (correttamente) la superstrada per la
Macedonia, non riesco a trovare lo svincolo per Gracanica.
Faccio su e giù un paio di volte, chiedo ripetutamente
indicazioni e infine credo di aver capito come arrivarci.
Ma sono sul lato sbagliato di uno svincolo parzialmente in
costruzione. La persona cui ho chiesto informazioni mi fa
cenno di passare, attraverso un breve sentiero in terra che
porta sull'altra carreggiata. Non vorrei passare di lì,
preferirei fare tutto il giro, tanto non ho fretta; ma insiste,
dice che non c'è problema; infine passo, percorro i
pochi metri del sentiero e ... alla fine c'è un marciapiede;
ormai è troppo complicato tornare indietro, il dislivello
mi sembra modesto; decido di passare e ... bum, sento un colpo
sotto alla moto.
Sulle prime non do molta importanza
alla cosa; altre volte ho toccato sotto alla moto; quasi sempre
è il cavalletto centrale, che può assorbire
senza problemi colpi anche forti, proteggendo il resto. Ma
stavolta non ho urtato il cavalletto; me ne rendo contro dopo
pochi km, quando, trovato finalmente lo svincolo per Gracanica
(per forza non lo trovavo: non c'era scritto il nome della
località serba, ma di una albanese posta dopo Gracanica!),
noto che sto perdendo olio!
Mai nei miei viaggi in moto
ho avuto paura ... tranne in questo momento. Temo di aver
rotto qualcosa sotto, al motore. Penso "sono sopravvissuto
(con la moto intera) alle terrificanti strade albanesi di
ieri, per poi rompere la moto e rischiare di finire il mio
viaggio per un marciapiede!".
Non c'è tempo da perdere:
lascio dietro di me una lunga, continua, scia d'olio. Stimo
però che la perdita sia debole: nei pochi minuti passati
avrò perso poche centinaia di grammi d'olio; potrei
fermarmi a rabboccare, ma sarebbe un palliativo e ritengo
più opportuno non perdere tempo e recarmi subito alla
vicina Pristina a cercare un meccanico.
Mi fiondo in centro, giro un
po' alla ricerca di un meccanico, chiedo, ma nulla. Alla fine
blocco un taxi, gli spiego il problema e gli chiedo di portarmi
subito da un meccanico: gli pagherò la corsa (poi mi
chiederà appena 3 €). Il tassista mi porta al
meglio che riesce a trovare: un meccanico che fa assistenza
gli scooter Mondial .... e ripara biciclette! Alzo gli occhi
al cielo e ... speriamo bene!
Il meccanico non capisce una
parola d'inglese, io ovviamente nulla di albanese; gli spiego
quindi il problema tramite il tassista, ma tanto la scia d'olio
è già abbastanza chiara!
Guardiamo sotto e ... subito
una buona notizia: non è niente di grave: è
solo il filtro dell'olio che, con la botta presa, si è
rotto."Solo",
per la verità, non sarebbe la parola giusta, poichè
non devo dimenticare di essere in Kosovo. Vabbè, che
sarà mai, in fondo sono in una capitale di uno Stato
europeo, si troverà un filtro dell'olio della marca
di motociclette più diffusa al mondo! Invece NO!
Per farla breve, dopo un intero
pomeriggio di attesa, il meccanico riesce a trovarmi un filtro
dell'olio di marca sconosciuta, più grande del mio,
ma che, fortunatamente ha la stessa filettatura. In Italia
glielo avrei tirato dietro, ma qui è come la manna
dal cielo. Lo monta, lo controlla, rabbocco con due kg d'olio
(stimo uno perso per strada e un altro nel cambio del filtro),
anche questo di marca sconosciuta (rabbrividisco quando leggo
sulla confezione "per motori 2 T, 4T e diesel"):
il filtro non perde, il problema sembra risolto.
Durante l'attesa presso il
meccanico, mi sento chiamare "Marcello, ma tu che ci
fai qui?!".
E' Tano, un mio amico motociclista
(ha una Gold Wing 1500 come me), che non vedo da anni, da
un raduno Gold Wing. "Faccio un giro in moto" gli
rispondo ridendo: lui è qui da mesi, carabiniere nella
missione internazionale in Kosovo, come mi racconta appena
sceso dalla camionetta militare che si è fermata proprio
di fronte al "mio" meccanico.Incredibile,
trovo un amico, con la stessa mia moto, che non vedevo da
anni, qui, in Kosovo! Tano sembra ancora più meravigliato
di me: di turisti in effetti non ne ha visti molti qui, nè
di motociclisti: sono il primo italiano in moto che incontra
in Kosovo. Anche lui mi dà del "pazzo": grandi
risate, tanti ricordi e staremmo a parlare per ore, anche
del mio viaggio, ma il dovere lo chiama. Mi dà qualche
utile indicazione su dove dormire e dove andare, e ci salutiamo.
E' ormai sera quando il meccanico
trova il filtro e mi sistema la moto. Il pomeriggio, che avevo
programmato altrimenti, ormai è andato. Pazienza, poteva
andare peggio! Trovo l'albergo ed esco un po' in giro per
Pristina e dintorni.
Di questo giro serale, mi colpisce
la gran vita presente in questa città, piena di locali,
affollati di gente (è sabato sera). Forse è
anche la voglia di lasciarsi indietro anni di guerre e di
incertezza, in un nuovo Stato che spera in un futuro migliore.
Gentilissimi i poliziotti locali,
che mi fanno passare in moto e parcheggiare senza problemi,
in pieno centro. Anche a Pristina è notevole la presenza
dei militari della missione internazionale, di varie nazionalità
(a Pristina è presente il comando della KFOR).
Appena arrivato nel paese di Gracanica, mi
rendo subito conto che sono in una zona abitata da serbi.
Lo dicono le bandiere serbe esposte sulle strade, i simboli
religiosi; mi sembra anche di notare un generale peggioramento
delle condizioni di vita. Giunto al monastero, noto subito
il lungo muro di cinta, rinforzato dal filo spinato.Di
guardia sono alcuni soldati svedesi, sempre della missione
internazionale. Solita trafila ed entro nel monastero. Noto
anche una poliziotta kosovara, ma chiaramente di etnia serba,
che, parcheggiata fuori l'auto di servizio,entra
nel monastero a pregare.
Il monastero di Gracanica è
uno dei più importanti monumenti dell'architettura
serba medioevale; costruito (dal re serbo Milutin) tra il
1313 e il 1321, incendiato dai turchi alla fine del secolo
e poi restaurato, nel 1539 fu dotato di una tipografia da
cui uscirono i primi capolavori della stampa serba.
Oltrepassato il muro di cinta,
ho ancora la sensazione, come negli altri monasteri, di essere
fuori dal mondo; nulla lascia immaginare le tensioni esistenti
fuori ... finchè non si guarda il filo spinato presente
sulla recinzione. Visito con calma il monastero e il cortile,
occupato da prati e da alberi.
A Pristina è interessante
la Sahat Kula (Torre dell'Orologio)e
le moschee Carsi (o del Sultano) e Fatih
(Imperiale)
Dal Kosovo non è possibile
passare in Serbia (che non riconosce questo Stato); devo quindi
prima andare in
- Macedonia.
La frontiera macedone si passa abbastanza rapidamente (è
una piacevole sorpresa in questo viaggio la relativa semplicità
e rapidità dei controlli di frontiera) e in breve arrivo
nella capitale Skopje. Significativo il Kameni Most,
il grande ponte del XV sec. sul fiume Vardar, che unisce la
vecchia città turca alla parte nuova.La
fortezza (Kale), costruita dai bizantini e poi rimaneggiata
dai turchi, posta su una collina in un ampio parco, offre
un bel panorama sulla città.Pranzo
in un ristorante sul fiume (in questi posti è difficile
spendere più di pochi euro per mangiare)e
via verso un altro confine da attraversare. Prima però
decido di fermarmi a visitare un monastero tra le montagne,
quello di Staro Nagoricane. Qualche difficoltà
per trovarlo, risolta chiedendo ad un locale che mi accompagna
per un tratto con la sua auto. Il monastero, costruito nel
1313 dal re di Serbia Milutin, appare piuttosto malridotto.
Parcheggiata la moto all'esterno, mi si avvicina una persona
che, con una piccola mancia, mi apre la porta del recinto
e mi fa visitare il complesso.
Adesso è l'ora di entrare
in
- Serbia;
poco prima della dogana, mi fermo un attimo e guardo la moto:
è dall'Italia (tranne i veloci tratti autostradali)
che viaggio con le bandiere europee e italiana spiegate al
vento. Mi chiedo se sia il caso di farlo anche in Serbia,
che certo non vede di buon occhio l'appoggio dato dall'U.E.
alla recente indipendenza del Kosovo (per non parlare dei
bombardamenti NATO del 1999). Ma decido di mantenerle aperte:
non ho mai avuto problemi, in nessuno degli Stati che ho visitato,
a causa della mia nazionalità, che non ho mai nascosto:
voglio dare alla Serbia la possibilità di non smentire
questa tradizione.
Però, prudenzialmente,
copro l'adesivo della bandiera del Kosovo, ultimo aggiunto
alla mia "collezione".Conoscendo
la "sensibilità" dei serbi su questo argomento,
meglio non "provocare".
Nelle soste verifico comunque
grande simpatia, probabilmente anche provocata dalla moto;
in una di queste (un classico) una bambina (o meglio il padre)
chiede di essere fotografata sulla moto.I
bambini sono uguali in tutto il mondo.
In Serbia (nessun problema
alla frontiera) mi dirigo verso nord, lungo la strada principale
di questo paese, qui però ancora non autostrada.
Noto dei
cartelli stradali che indicano il Patriarcato, cioè
il monastero Patrijarsija di Pec, che ho visitato
ieri. Lo indicano come, in Italia, indichiamo una qualsiasi
località storica importante "posta in Italia".
Non vi è alcun accenno al fatto che il Patriarcato
è, ormai, in un altro Stato, oltre un confine ormai,
di fatto, esistente. E' indicato come se fosse una
qualunque località serba, senza accenno alcuno che
è in Kosovo. Sintomo, anche questo, di un non volere
accettare quello che, ormai, non possono impedire.
Dopo Nis punto a nord-est e
la strada peggiora decisamente. A tratti dissestata, presenta
soprattutto alcuni tratti molto pericolosi, dove alcuni pezzi
di asfalto sono stati semplicemente rimossi, in attesa di
sostituzione; e senza alcun accorgimento per limitare i danni
per i veicoli che ci finiscono dentro, soprattutto le moto
(non ne ho vista nessuna), poichè i bordi di tali buche
sono completamente verticali, con le conseguenze che potete
immaginare quando, qualche volta, non riesco ad evitarle.
Un po' affaticato da questi
tratti (che si prolungano per diverse decine di km), arrivo
a Zajecar, città della Serbia orientale.
La sera, nella piazza principale
della città, mi sento chiamare da tre motociclisti
locali, che mi hanno visto parcheggiare la moto: sono molto
gentili e curiosi di sentire del mio viaggio (mi offrono anche
un gelato). Racconto con piacere dei paesi percorsi: arrivato
al Kosovo, cerco di essere il più "neutro"
possibile, per non urtare la loro sensibilità. Ma,
mentre racconto del mio giro dei monasteri serbi del Kosovo,
noto un certo disagio nei loro volti e immagino cosa provino
in questi momenti; purtroppo il loro inglese approssimativo
non mi permette di approfondire l'argomento, cosa che, con
le cautele del caso, credo sarebbe stato interessante fare.
Diretto verso le gole del Danubio,
avvisto prima le Porte di Ferro. In questo punto, famoso fin
dall'antichità, il Danubio formava una strettoia lunga
3 km e larga 500 m, pericolosa per la navigazione a causa
della presenza di scogli affioranti. Qui ora c'è una
diga (costruita nel 1964-72), lunga 1287 m alla sommità
e 448 alla base; in questo modo il livello del Danubio si
è alzato di 30 m, permettendo anche alle navi di 5.000
t di arrivare a Belgrado dal mar Nero.
Ma non
è questo il punto più spettacolare e
quindi risalgo il Danubio (restando sul lato serbo, di fronte
c'è la Romania) per 37 km, lungo le cosiddette marmitte
del Danubio (Canazele Dunarii), riserva naturale
all'interno del Parco naturale delle Porte di Ferro.Fa
molto caldo, e ogni tanto mi fermo in alcuni punti sosta,
non so quanto per fare spettacolari foto e quanto invece per
trovare un po' di frescura.
Torno quindi indietro fino
alle Porte di Ferro, che supero passando sopra lo sbarramento,
ed entro in
- Romania.Il
programma è di attraversare la Transilvania, da sud-ovest
a nord-est, fino in Moldavia. Ben presto la strada comincia
ad aprirsi il varco attraverso i Carpazi, in mezzo a fitti
boschi che fortunatamente forniscono refrigerio alla intensa
calura, anche con fresche sorgenti d'acqua.
Fermatomi in un paese per ristorarmi,
si avvicina il solito gruppo di persone, incuriosito dalla
moto. Si avvicina anche una donna, che mi chiede, sorpresa,
se davvero viaggio in moto da solo. Di fronte alla mia conferma,
mi raccomanda di stare attento: la tranquillizzo che starò
attento alle strade (ne ho già "apprezzato"
lo stato non eccelso), evitando di viaggiare al buio. Mi risponde,
preoccupata, di stare attento non solo a quello!
Conosco i rischi di viaggiare
da solo in moto, soprattutto in certi paesi. Credo che, comunque,
se dovessi dar retta alla paura, non partirei nemmeno; in
fondo, credo di non rischiare più che ad andare la
sera in giro presso la stazione centrale di una grande città
italiana.
Tra Petroseni e Hunedoara faccio
una deviazione per visitare la chiesa di Densus. E' un piccolo
villaggio, con la chiesa seminascosta dalla vegetazione, costruita
nel XIII sec. su costruzioni del X, con materiale di riporto
dei vicini siti archeologici romani. Alcuni fanno risalire
la costruzione al VI sec., in seguito alla trasformazione
di un mausoleo romano. E' in fase di restauro. Non c'è
nessuno; visito con calma l'esterno: purtroppo l'interno,
affrescato, è chiuso.
Arrivato ad Hunedoara, noto
gli strani palazzi della nutrita comunità Rom, con
i tetti in scintillante lamiera a forma di pagoda.Il
monumento principale della città è il castello
dei Corvino (Corbenestilor). Il nome deriva dall'appellativo
che assunse la nobile famiglia degli Hunedoara, magiarizzato
in Hunyadi, che diede al trono ungherese il grande sovrano
Mattia Corvino. Questo mi ricorda che, in questa zona, fortissima
fu la presenza ungherese, comunità ancora presente
seppure in misura molto inferiore rispetto al passato; fortunatamente
però senza le tensioni viste pochi giorni fa in Kosovo.
Il castello, è splendido
nella luce del tramonto, in cima alla collina di San Pietro,
lambito dal fiume Zlasti.
Trovo un albergo in centro,
di stampo sovietico. Marmi nelle sale, ma l'ascensore non
funziona. Poco male: farò un po' di moto.
Dopo la partenza da Hunedoara,
noto un parcheggio per limousine, in forte contrasto col livello
di vita locale.Purtroppo
la strada è molto trafficata, soprattutto da TIR che
intasano la sede viaria; probabilmente si tratta di una direttrice
importante, che spero di abbandonare alla prossima città.
La prima tappa è Sebes,
dove c'è un'interessante chiesa evangelica, di origine
sassone. Infatti in Transilvania era presente anche un'importante
comunità sassone, ancora esistente, sia pure numericamente
ridotta. La targa in tedesco (Sebes in tedesco "Muhlbach")
lo testimonia.
La successiva sosta dovrebbe
essere Sighisoara, ma il caldo opprimente mi porta a cercare
un altro motivo di visita lungo il percorso, e così
mi fermo a Sibiu. Scelta indovinata, perchè la città
presenta un bel centro storico (pedonale) e una splendida
piazza centrale.Dopo
la visita, mi piazzo all'ombra in uno dei tanti bar (ce n'è
anche uno che fornisce gratuitamente internet wireless) a
prendere fiato. Interessanti gli abbaini a forma d'occhio
e la fontana "rasoterra", dove giocano i bambini.
Ma la strada chiama e così
di nuovo in sella, attraverso le verdi colline della Transilvania,verso
Sighisoara, la città natale di Dracula. In questa città,
molto interessante la città alta, ancora circondata
dalle antiche mura. Parcheggiata la moto in una piazzetta
a ridosso del centro, salgo verso l'antica Torre del Consiglio
(Turnul cu Ceas) o dell'orologio.Lì
vicino è la casa natale di Dracula, ora ristorante.Curiosa
la Hirscherhaus, detta casa cu cerb, per
la presenza di una testa di cervo in legno con corna naturali
sullo spigolo dell'edificio.
Con Sighisoara finisce la mia
esplorazione "cittadina" della Transilvania, e ora
dirigo, senza altre soste, verso i valichi di montagna che,
attraversando nuovamente i Carpazi, mi porteranno verso la
Moldavia romena. Prima il Bucin-Borzont ( m 1.287), poi, dopo
il paese di Gheorgheni, il passo Bicaz ( m 1.256). Purtroppo,
presso quest'ultimo, comincia a piovere, e ben presto la strada
in alcuni punti diventa insidiosa, a causa dell'invasione
della carreggiata da parte del fango. Ad un certo punto incrocio
un pullman che, per attraversare un passaggio difficile, fa
addirittura scendere tutti i passeggeri; un po' di timore,
ma passo anch'io (senza scendere dalla moto, ovviamente).
La pioggia non mi permette
di cogliere appieno la bellezza del posto. Dopo il valico
la strada passa vicino al lago rosa (dicono molto bello, ma
il maltempo mi induce a tirare dritto) per poi insinuarsi
nelle strette gole di Bicaz, davvero spettacolari.Arrivato
al punto più stretto delle gole, la pioggia diventa
violento temporale e preferisco fermarmi e trovare rifugio
in un chiosco dei venditori di souvenir, strategicamente piazzati
sul posto.Approfittando
di un attenuarsi della pioggia, riprendo la moto e, percorso
l'ultimo tratto delle gole,giungo
a Bicaz.
Trovo alloggio in un motel-ristorante
sulla strada principale: quando il gestore dell'albergo mi
vede tutto gocciolante non ho bisogno di spiegare che sono
in moto e mi trova subito un riparo per lei per la notte,
in un deposito (di cui deve aprire il portone grande, chè
la Gold Wing dalla porticina proprio non ci passa!).
Dopo aver costeggiato il lago
artificiale di Bicaz,
valicato un passo a 950 m, arrivo al monastero di Neamt.E'
il più grande monastero maschile della Romania, in
una zona collinare (500 m) coperta di boschi, già famoso
nel '300, soprattutto come centro di diffusione culturale,
grazie alla sua officina di miniaturisti, calligrafi, pittori.
Notevole la chiesa (1493), posta al centro del cortile, con
mattoni a vista e ceramiche ornamentali, alti spioventi.Curioso
il battistero, esterno al convento, dall'enorme cupola.
Ma la cosa più curiosa,
secondo me, è la ... curiosità e l'interesse
manifestato dai monaci verso la mia moto. Fin dall'arrivo,
si sono avvicinati e hanno chiesto particolari su di essa;ma,
adesso che sto per ripartire, un monaco si avvicina, chiede
particolari e ... mi chiede di provarla. Non ho mai fatto
guidare la mia moto a nessuno (escluso il mio meccanico),
ma il monaco insiste e infine accetto, a patto però
di fotografarlo. Gli do alcuni essenziali e importanti consigli
(lui dice di aver guidato moto, ma la Gold Wing è decisamente
un'altra cosa), sale sulla moto, gli resto accanto aiutandolo
per prima cosa ... a non cadere prima ancora di mettere in
moto. Viste le difficoltà, gli chiedo se è ancora
sicuro di voler provare: risponde di sì, convinto.
Mette in moto e ... devo reggerlo altrimenti cade subito!
Accenna a muoversi, non riesce a fermarsi, noto la leva della
frizione esageratamente tirata,infine
intervengo, prima che rovini a terra, fermando (con qualche
difficoltà) la moto con le mani: non è il caso
di insistere e se ne rende conto anche lui.
Dopo il brivido del pope sulla
moto, saluto e dirigo sul capoluogo della Moldavia romena,
Iasi, attraverso le colline.A
Iasi punto verso il centro (aiutato dal solito motociclista,
categoria che, seppur rara in questi posti, non si sottrae
mai dall'aiutare un "collega" che cerca indicazioni),
fino alla Biserica Trei Ierarhi, intitolata ai tre
gerarchi della Chiesa (san Basilio di Cesarea, san Giovanni
Crisostomo e san Gregorio il Taumaturgo). La Chiesa, imponente,
è impressionante nel suo ricchissimo apparato decorativo
esterno, un merletto di intagli.
Da Chisinau il confine Moldavo,
rappresentato dal fiume Prut, è vicino, appena 15 km
... in linea d'aria.
Poichè devo semplicemente
andare dal capoluogo della Moldavia romena (Iasi) alla capitale
della Moldavia indipendente (Chisinau), credo che non avrò
problemi a trovare la strada, ma ...
La via più breve sulla
carta porta in 22 km alla località di Bosia e alla
dirimpettaia moldava Ungheni (subito dopo il fiume Prut).
Mi dirigo fiducioso, ma, dopo un po', la strada peggiora decisamente,
fino a diventare proprio disastrata. Preoccupato, chiedo indicazione
se sia quella la strada per Ungheni e la Moldavia, chiedendo
anche a dei poliziotti; rispondono di sì e continuo,
pensando che, in fondo, se me lo dicono le persone del posto
e per di più dei poliziotti, sarà la strada
giusta. Passo infine la ferrovia (passaggio completamente
incustodito); ormai il fiume è a pochi metri, ma non
vedo nessun ponte; infine mi rendo conto che ... il passaggio
non c'è: questo è un valico solo per la ferrovia,
che infatti supera il fiume Prut con un ponte, ovviamente
per me impraticabile. Mi tocca tornare indietro;certo
che qualche indicazioni in più non farebbe male!
Torno quindi verso Iasi e prendo
un'altra strada che costeggia per diversi km il fiume Prut,fino
ad arrivare, dopo aver superato diversi carri agricoli stracolmi,al
ponte che permette di entrare in
- Moldavia.Poco
prima del confine mi fermo per coprire l'adesivo della bandiera
della Transdnistria: non è il caso infatti di entrare
in Moldavia esibendo la bandiera di uno Stato che ha imposto
la propria indipendenza con una guerra contro la Moldavia, che
non lo riconosce rivendicandone il territorio come propria parte
integrante.
Anche questo
confine lo passo senza problemi, sebbene la videocamera,
montata in modo piuttosto vistoso sulla moto, attiri l'attenzione
delle guardie, che mi chiedono spiegazioni. Ovviamente quando
mi avvicino ai passaggi di frontiera ho sempre l'accortezza
di spegnere la videocamera (magari all'ultimo momento), come
pure evito di scattare foto, ma non posso certo rimuoverla
dalla sua custodia, fissata saldamente alla moto. Di fronte
ai dubbi dei doganieri, dopo aver cercato di spiegare che
sono un semplice turista e voglio solo documentare il mio
viaggio, mi viene un'idea. Tiro fuori dal baule della moto
i numeri di Mototurismo dove sono stati pubblicati alcuni
miei articoli dei precedenti viaggi e li mostro alle guardie:
risolto! Dopo pochi secondi tutti se li stanno contendendo,
commentando (soprattutto le foto, ovviamente) e sorridendo:
ho il via libera!
Superati i problemi burocratici,
percorro le dolci colline della Moldaviae
in breve arrivo alla capitale Chisinau.La
città presenta ampi viali alberati e numerosi parchi.Visito
la cattedrale, dalle forme neoclassiche,l'arco
di trionfoe
alcuni dei suoi ampi parchi.Ho
qualche difficoltà a trovare un albergo normale (trovo
solo alberghi di lusso), poi ricorro al solito sistema del
taxi che, per una piccola mancia, mi porta ad un albergo "accettabile".
La sera noto anche qui parecchio
movimento, con i locali affollati. Forte il contrasto, come
in altri paesi dell'est, tra alcune auto di lusso e tante
altre molto "datate".
Domani sarà una delle
giornate più delicate del viaggio, con l'incognita
Transdnistria. Preparo con cura la disposizione delle eventuali
(probabili) "mance". Non sono preoccupato, ma molto
curioso di vedere quello che mi aspetta.
La mattina guardo la moto e
mi chiedo se affrontare l'incerto valico di frontiera che
mi attende nell'assetto attuale. Non so infatti se sia il
caso di mantenere montata la videocamera, in modo così
vistoso. Decido infine di lasciare tutto com'è; nel
caso me lo chiedessero, la toglierò. Nessun problema
per le bandiere, che mantengo aperte. L'adesivo della Transdnistria
è ovviamente ancora coperto, per non urtare la suscettibilità
dei moldavi.
A questo punto credo possa
essere chiarificatrice una breve storia della
- Transdnistria.
Quando, nel 1991, la Moldavia dichiarò la propria indipendenza
dall'URSS, la Transdnistria dichiarò a sua volta l'indipendenza
dalla Moldavia, e scoppiò un sanguinoso conflitto,
poi risolto attraverso la mediazione della Russia.
In un referendum tenutosi in Moldavia nel marzo 1994, il 90%
dei votanti si dichiarò a favore dell'indipendenza
del paese, ma l'anno successivo la Transdnistria, con un altro
referendum popolare, proclamò la propria indipendenza,
chiedendo altresì che non venissero ritirate dal proprio
territorio le truppe russe della XIV armata. La Transdnistria
si estende su una sottile striscia di territorio, lungo il
fiume Dnestr, per 3.567 km².
Dirigo verso Tighina, che dovrebbe
essere l'ultima città moldava prima della Transdnistria,
al di qua del fiume Dnestr.
Ma già prima della città
noto dei posti di blocco. Resto sorpreso: è vero che
non ho carte dettagliate, ma sono inequivocabilmente al di
qua del fiume, quindi dovrei essere ancora in Moldavia. Sta
di fatto che mi ritrovo in un posto di blocco. Guardo le bandiere:
sono moldave, quindi il confine ancora non l'ho passato.
Cominciano però i soliti
controlli di frontiera, un po' più accurati del solito.
Ad un certo punto le guardie mi convocano nei loro uffici.
Mi guardo intorno: vedo scritte in cirillico, nonostante sia
ancora in Moldavia e sento i militari parlare russo. Presumo
quindi che, già in questa zona della Moldavia, ci siano
più russi che romeni.
Ma non è la lingua il
problema. Il militare comincia a farmi un discorsetto (tra
gesti e qualche parola d'inglese) che si può riassumere
così: "guarda che, lì dove stai andando,
non è Moldavia, perchè lì noi non abbiamo
il controllo dei territorio; lo fai a tuo rischio, sei sicuro?"
Detto da un rappresentante ufficiale della Moldavia, il discorso
sembra un po' strano; d'altra parte noto che il militare pare
in imbarazzo, poichè deve ammettere di fatto l'esistenza
di uno Stato che ufficialmente non esiste, soprattutto per
la Moldavia. L'imbarazzo però non c'è quando
sento la significativa parola "present", pronunciata
sorridendo. Ho capito, vuole una mancia.
Provo con 5 euro, ma non bastano:
allora li rimetto nella tasca destra e prendo dalla sinistra
una banconota da 10; stavolta sono sufficienti e il militare
mi fa cenno che posso andare.
Cominciamo bene! Ancora non
sono in Transdnistria e già iniziano le "mance".
Proseguo e mi ritrovo subito un altro posto di blocco: guardo
di nuovo le bandiere e non sono più moldave, ma quelle
rosso e verdi della Transdnistria. Ma come? Il fiume non l'ho
superato, dovrei essere ancora in Moldavia, non sono ancora
passato da Tighina! Capisco allora (e poi ne avrò la
conferma) che, quando ha dichiarato la propria indipendenza,
la Transdnistria ha pensato bene di prendersi anche qualche
pezzo di territorio "al di qua" del fiume Dnestr,
presso la capitale, annettendosi quindi la città di
Tighina, abitata prevalentemente da russi.
Cominciano quindi gli stessi
controlli di frontiera di una frontiera che, per tutto il
resto del mondo non esiste. E' una strana situazione: le guardie
di confine dei due Stati che non si riconoscono (Moldavia
e Transdnistria) sono a pochi metri le une dalle altre, ma
ufficialmente non hanno rapporti. La doganiera comincia a
controllare la moto: per prima nota la videocamera e mi chiede,
sospettosa, a cosa serva. Ne spiego il funzionamento e poi
tiro fuori (come fatto altre volte) le copie di Mototurismo
con i miei articoli: i sospetti cominciano a stemperarsi.
Per spezzare la tensione mi metto platealmente a scoprire
la bandiera della Transdnistria, fino ad allora coperta da
un adesivo. I militari apprezzano molto e mi fanno i complimenti
per la correttezza del disegno (lo avevo trovato su internet
sul sito "ufficiale" della Transdnistria, pochi
giorni prima di partire). I controlli continuano con la perquisizione
della moto, ma probabilmente l'addetto non ha mai visto una
moto del genere e sembra non sapere da dove cominciare: mi
chiede di aprire un borsello, poi un altro e un altro ancora.
Al settimo scomparto forse si scoccia e mi fa cenno che va
bene così: incredibile, non mi ha nemmeno chiesto di
aprire le tre borse principali!
Pago la tassa di ingresso (ufficiale,
con tanto di ricevuta): noto che sono ben organizzati, con
un listino di cambio affisso, e la possibilità di pagare
in diverse valute. In euro la somma ammonta a 49 CENTESIMI!
Fatto! I controlli sono finiti.
Non ci ho messo nemmeno tanto (17' per uscire dalla Moldavia
e 26' per entrare in Transdnistria) e nessuno mi ha chiesto
mance per entrare; temevo decisamente peggio.
Subito dopo il confine attraverso
la città di Tighina.Mi
fermo solo per cambiare la cassetta della videocamera e punto
sulla vicina capitale, Tiraspol. Noto l'abbondanza di vecchi
camion che sembrano vecchi mezzi militari "riconvertiti".
Numerosi anche i militari in giro.
In breve sono a Tiraspol.Non
avendo alcuna mappa della città, avanzo prudentemente
cercando il centro, con la massima attenzione a non violare
alcun divieto e non dare alcuna occasione di multe o "mance"
ai poliziotti locali.
Dopo un po' arrivo ad una stazione
di polizia e davanti a me, a sbarrare l'accesso alla strada
che dovrebbe portarmi in centro, vedo un cartello che sembra
indicare il divieto di accesso alle moto: dico sembra perchè
non è esattamente fatto come quelli cui siamo abituati.
Vorrei fotografarlo, ma il fatto che sia posto proprio di
fronte alla stazione di polizia mi consiglia di evitare (i
militari normalmente sono molto suscettibili su questo e,
visto il posto in cui mi trovo, non mi sembra il caso di rischiare).
Incerto se continuare, mi fermo e mi guardo in giro: anche
i poliziotti mi guardano. Non posso restare a lungo così,
in mezzo all'incrocio. Accosto e chiedo cosa devo fare: i
poliziotti sembrano non capire: si avvicina una persona che
parla inglese e mi spiega che il centro è chiuso per
una visita importante, quindi non posso passare con la moto;
comunque il centro è ad appena un isolato.
Un po' a malincuore (preferisco
sempre visitare le città in moto e non a piedi), chiedo
ai poliziotti se posso lasciare la moto lì (non mi
sembra possa esserci un posto più sicuro che di fronte
ad una stazione di polizia); mi rispondono di sì, ma
senza loro responsabilità (strano discorso, per dei
poliziotti); parcheggio quindi nello spazio loro riservato,
passando oltre la sbarra.Proseguo
a piedi e in breve sono sul viale principale.
Il traffico è scarso
e ordinato. La prima cosa che noto è una serie di grandi
cartelloni: sono gli atleti della Transdnistria che hanno
partecipato alle olimpiadi.Le
scritte sono in caratteri cirillici, quindi altro non riesco
a capire, ma è chiaro l'intento di esaltare il senso
di appartenenza del piccolo Stato, dimostrando che anche loro
hanno un'importanza, nonostante le piccole dimensioni e l'esistenza
travagliata.
Sul viale si affacciano i principali
edifici. La Casa del Soviet (Dom Sevetov), in puro
stile sovietico, con tanto di stella a 5 punte sulla sommità
e busto di Lenin all'ingresso.Di
fronte al palazzo trovo parcheggiato un interessante vecchio
sidecar: motore boxer, costruttore non identificato, una copertina
a coprire il carrozzino e due caschi poggiati sopra, senza
targa.
Poco più avanti, una
serie di grandi immagini dei vari "Capi di Stato"
(o sindaci di Tiraspol, non riesco a interpretare le scritte),
dalla nascita dell'U.R.S.S. ad oggi, con l'attuale Presidente
della Repubblica di Transdnistria.C'è
un'atmosfera da Unione Sovietica di vent'anni fa, come se
il tempo si fosse fermato.
Lungo il viale è anche
la sede dell'università. Mi siedo a un bar (l'unico
che ho notato), con i tavolini all'aperto, affollato di studenti
universitari che consultano le loro dispense di studio. Dopo
un po' di attesa capisco che se voglio qualcosa devo entrare
nel bar a prendermela. Si paga solo in valuta locale (il rublo
della Transdnistria), ma c'è un piccolo box con una
signora cambiavalute. Cambio 5 euro, ricevendo una massa di
banconote e diverse monetine: ad occhio calcolo che il cambio
coincide con le notizie che avevo attinto da internet: noto
con curiosità la banconota da 1 rublo, che equivale
a meno di 8 centesimi di euro.Curioso
tra gli scaffali (che non offrono molto) e, a gesti più
che con le parole (livello di conoscenza dell'inglese zero),
prendo qualcosa, che consumo poi a uno dei tavolini all'aperto.
Me la prendo comoda e ripeto l'operazione più volte.
Mi accorgo che, nonostante l'impegno, non riesco a consumare
i soldi appena cambiati: ho speso appena 1 euro!
Arrivato alla fine del viale,
torno alla moto, che trovo tranquillamente al suo posto. Ma
non sono soddisfatto, sento che mi manca qualcosa. Aver visitato
il centro di Tiraspol a piedi mi dà un senso di incompletezza,
con la moto lasciata parcheggiata in disparte. Ma c'è
sempre quel cartello, che sembra sbarrarmi il passo. Riprendo
la moto e guardo di nuovo il cartello, e poi i poliziotti;
chiedo se posso passare; non sembrano avere le idee molto
chiare e ... non dicono di no. Deciso: prendo la moto e passo
risoluto, diretto al centro. Arrivo subito e percorro, lentamente,
il lungo viale centrale. Adesso sì, sono soddisfatto:
eccomi, a Tiraspol, capitale della Transdnistria, con la mia
moto. Percorro
il viale centrale anche verso l'estremità opposta di
prima, verso ovest e il fiume Dnestr. In effetti da questa
parte è sbarrata la parte terminale, in preparazione
della visita/manifestazione di cui mi avevano parlato prima.
Bene, credo che possa bastare; in Transdnistria non c'è
molto altro da vedere, torno in Moldavia.
La meta è la repubblica
di Gagauzia, nella Moldavia meridionale; superato di nuovo
il fiume Dnestr,giunto
a Tighina, cerco la strada per il confine, diversa da quella
dell'andata (prima provenivo da ovest, adesso punto a sud).
Credo di averla trovata, ma ecco che, proprio adesso che mi
sto complimentando con me stesso per essere uscito incolume
dalla visita in Transdnistria, tanto temuta (soprattutto da
parenti e amici), commetto una stupidaggine. Passo davanti
a un gabbiotto della polizia (che avevo già notato
all'andata) presso un incrocio e decido di accostare alla
mia sinistra per chiedere conferma che questa sia la strada
giusta. Metto la freccia e uno stupido automobilista dietro
mi suona. Subito il poliziotto (che sembra non aspetti altro
pretesto) mi fa cenno di fermarmi, mi chiede i documenti e
mi convoca all'interno del gabbiotto.
Sono in due e comincia la "commedia".
Mi contestano l'infrazione, cioè di aver tagliato la
strada; cerco di spiegare in tutti i modi (è dura se
l'interlocutore non capisce l'inglese, o fa finta di non capire)
che non ho commesso alcuna infrazione, che mi sono limitato
a mettere la freccia, in una strada con le corsie delimitate
da strisce discontinue, dove quindi la manovra è permessa.
Niente da fare: un poliziotto prende la mia patente e platealmente
se la mette in tasca, dicendomi che non l'avrei più
rivista. Ho capito, vogliono scucirmi un po' di denaro. Parte
la contrattazione: offro 5 euro, loro ribattono con 50. Chiudiamo
a 20.
Tiro fuori una banconota da
20 euro, ma, come immaginavo, dicono che non va bene e ne
vogliono 2 da 10. Sorrido; è ovvio: loro sono 2, è
più comodo avere 2 pezzi da 10! Saluto e me ne vado.
All'uscita dalla città
smaltisco i rubli rimasti mettendo poco più di 4 l
di benzina nella moto (il prezzo più basso del viaggio,
appena 0,86 € al litro).
Dopo pochi minuti nuovo stop:
è la frontiera. Soliti controlli, ma un po' più
veloci. Nel suo ufficio la guardia, compilati i moduli (completamente
incomprensibili, ma dei quali sembra anche lui interessarsi
poco), mi chiede il pagamento di una "tassa": si
accontenta di 5 €. Va bene, in fondo me l'aspettavo:
passare la frontiera sia in entrata che in uscita senza una
"tassa" sarebbe stato strano. Pretendo però,
come contropartita, la possibilità di fare una foto
(cosa vietatissima nelle dogane) alla cartina della Transdnistria
appesa ad una parete:rigorosamente
in russo, falce e martello in evidenza, una striscia di passato
tra Moldavia ed Ucraina. Rientrato in
- Moldavia (2),
la strada peggiora. Del resto questa non è una via
principale.Attraverso
piccoli villaggie
arrivo a Comrat, capoluogo della repubblica di Gagauzia.
La Gagauzia ha una storia in
parte simile alla Transdnistria. Abitata da Gagauzi, minoranza
etnica cristiana che parla un dialetto turco con forti influenza
russe, nel 1990 prese le armi per affermare la propria indipendenza
dalla Moldavia, alleandosi con la Transdnistria. La Gagauzia
però raggiunse un accordo con la Moldavia e, in cambio
della rinuncia all'indipendenza, ottenne la completa autonomia
interna, nell'ambito dello Stato della Moldavia (cui è
soggetta solo per la difesa e le relazioni con l'estero).
E' composta da 3 distretti, per 1.800 km², senza contiguità
territoriale.
Avevo previsto di fermarmi
a Comrat, ma è ancora presto e la città non
sembra offrire molto; decido quindi di continuare verso sud,
cercando di arrivare in Romania.
Ma la strada peggiora sempre
più e noto che nella carrozzeria della moto, stressata
dalla continue vibrazioni provocate dal fondo stradale (con
tratti di sterrato, buche continue, pavimentazione a quadrati
di cemento),si
sta aprendo una crepa in un punto che, già da prima
del viaggio, presentava una piccola lesione. Riparo con del
nastro adesivoe
proseguo (a casa basterà della colla per riparare il
tutto).
A un certo punto, però,
scoppia un violento temporale e, dopo aver trovato un provvisorio
riparo, concludo che è troppo pericoloso continuare
su queste strade con le buche piene d'acqua. Nella cittadina
di Vulcanesti (il capoluogo di uno dei tre distretti della
Gaugazia) trovo un hotel proprio sulla via e mi fermo per
la notte.
L'albergo non ha un posto per
la moto: mi offre di metterla nell'ingresso, ma non passa
dalla porta e quindi mi indica un posto vicino, custodito,
dove posso lasciarla per la notte. Approfittando di una pausa
nella pioggia, ce la porto e la lascio lì, per un compenso
di meno di 2 €.
Nell'albergo trovo l'immancabile
italiano (non riesco a fare un viaggio, anche nei posti più
isolati, senza incontrarne almeno uno): è lì
per lavoro da qualche settimana (impianta una fabbrica, per
il basso costo della manodopera) e mi consiglia un posto per
mangiare lì vicino. Ottimo consiglio: mangio magnificamente
(insalata mista e una fantastica "battuta" di carne)
ad un costo ridicolo. Mi sposto poi ad un vicino bar per il
gelato dopo cena e qui accade un episodio curioso, per fortuna
senza conseguenze.
Noto, seduti davanti al bar,
un folto gruppo di persone. Non riesco capire di che si tratti,
forse una festa, penso; poi mi accorgo che sono tutte rivolte
verso la tv, che però dà un semplice film di
guerra russo. Compro un gelato e mi avvicino ad un gruppo
di sedie vuote, impilate, chiedendo ad un ragazzo lì
vicino se sono libere, lui borbotta qualcosa di incomprensibile
in russo e ne prendo una. Immediatamente sento una mano robusta
che mi blocca un braccio. Il ragazzo di prima mi guarda minaccioso
e mi intima (stavolta non c'è bisogno di capire il
russo per comprendere) di lasciare la sedia. Ha l'aria proprio
agitata (e già una bottiglia semivuota di vodka sul
tavolo): cerco di fargli comprendere che non capisco nulla
di quello che dice e la sedia mi serve solo per 5 minuti,
il tempo di mangiare il gelato che ho in mano. Sembra capire
e mi lascia.
Seduto, guardo meglio e comprendo.
La zona delle Moldavia in cui mi trovo sembra che sia abitata
prevalentemente da russi; certo è solo russo che sento
parlare adesso intorno a me. Stasera c'è Russia-Turchia,
semifinale degli europei di calcio; e tutte queste persone
non è il film russo che stanno guardando, ma stanno
aspettando l'inizio della partita, tra pochi minuti. A conferma
di ciò, ben presto alcuni ragazzi mettono una grande
bandiera russa accanto alla tv e, tra un boato generale, comincia
la partita, trasmessa da una tv russa. Anche nella tv dell'albergo
(come controllerò poco dopo) si riceve tranquillamente
la tv della Russia. Capisco che il ragazzo di prima mi aveva
detto (quando non lo avevo compreso) che la sedia era occupata
(probabilmente dagli amici che dovevano arrivare). Finito
il gelato, libero la sedia e torno in albergo. Per quanto
mi riguarda, che la Russia passi o no il turno mi è
completamente indifferente.
Strano posto i Balcani: in
Kosovo assisto ai caroselli delle auto per la qualificazione
della Turchia (contro la Croazia); in Moldavia vedo l'inizio
della partita Turchia-Russia insieme ad un gruppo di russi.
Il calcio in questo caso è il sintomo di qualcosa di
più profondo e significativo della semplice passione
sportiva.
Il giorno dopo recupero la
moto dal parcheggio (il custode non si vede in giro, ma si
materializza improvvisamente appena accenno a partire in moto,
anche perchè deve ancora essere pagato) e dirigo verso
sud, attraverso i vigneti della Moldavia meridionale,facendo
lo slalom fra trattori pieni all'inverosimilee
altri che trasportano carichi che si estendono pericolosamente
oltre metà carreggiata.
La strada, in condizioni accettabili,
supera le colline con lunghi rettilinei e discreti dislivelli.
Attraverso il fiume Prutnel
punto in cui confluisce nel Danubio ed entro in
- Romania (2),
costeggiando il grande fiume che avevo lasciato 4
giorni fa, sempre in Romania, alle porte di Ferro.
Voglio andare nella zona del
delta. Per farlo devo attraversare il fiume: il primo ponte
disponibile (guardando le carte) sembra essere a Braila.Seguo
le indicazioni per Tulcea (la città romena dove sono
diretto, posta nella zona del delta); non sono il massimo
della chiarezza, ma alla fine sembra che abbia trovato la
via giusta. La strada dirige decisa verso il fiume, ma la
vedo insolitamente bassa: strano, un ponte qui, per permettere
il passaggio della grandi navi, dovrebbe essere abbastanza
alto sull'acqua.
Ormai sono a pochi metri del
fiume ed ecco che ... il ponte non c'è! E' un traghetto.Sono
sorpreso, ma, riflettendo, anche se le indicazioni stradali
erano equivoche (non era certo indicato un traghetto), guardando
la carta stradale mi rendo conto che, essendo a media scala,
non era scontato che quella linea indicasse un ponte invece
che un traghetto; ma soprattutto, zoomando sul gps, vedo che
quest'ultimo indica chiaramente che l'attraversamento del
fiume qui avviene con traghetto.
Poco male: non amo i traghetti,
ma, se la strada non c'è, non posso certo guadare il
Danubio! L'imbarco è piuttosto sconnesso e affronto
con circospezione gli ultimi metri prima dell'imbarcazione.
Sono strani questo traghetti:
l'imbarcazione accosta dal lato di dritta al pontile e i veicoli,
anche grossi TIR, salgono posizionandosi di traverso, per
poi scendere dal lato sinistro.Mentre
sto per salire sul traghetto noto che c'è un discreto
dislivello tra il pontile e l'imbarcazione, oltre ad un vuoto
piuttosto largo, dove temo che la ruota anteriore si incastri.
Non vorrei inoltre rischiare un nuovo incidente come quello
del filtro dell'olio in Kosovo. Avviso
del problema l'addetto, che provvede a mettere un pezzo di
legno sotto la moto; non è l'ideale, ma almeno dovrebbe
attutire il colpo. Procedo piano, bloccando il traffico dei
TIR dietro di me; nonostante tutto, quando salgo sul traghetto,
la ruota anteriore si blocca, tra il pontile e il bordo dell'imbarcazione;
dosando il gas, riesco comunque a sbloccare la moto. Qualche
altra manovra e finalmente parcheggio tra i TIR: che sudata!
La moto è osservata con interesse dai camionisti.
In questo punto il Danubio
è largo circa 400 m e non ha ancora cominciato a ramificarsi
nel suo grande delta.
Sbarcato sull'altra sponda,
dirigo verso Tulcea. La strada ogni tanto costeggia il Danubio;
noto l'abbondanza di carri trainati da animali, qui addirittura
targati (i carri).
Tulcea è la città
principale del delta. Il delta del Danubio, vasto ben 8.000
km², è un ambiente unico. Ha tre bracci principali:
a nord (al confine con l'Ucraina), quello di Chilia; al centro
quello di Sulina; a sud quello di San Giorgio.
Tulcea è posta subito
a valle della prima biforcazione del Danubio, all'inizio del
delta, sul ramo che porta a Sulina e al braccio di San Giorgio.
Dal bel lungofiume osservo le imbarcazioni che effettuano
le crociere fino a Sulina, raggiungibile solo via acqua, poichè
non esistono strade transitabili a valle di Tulcea, nonostante
siano segnate sulle mappe (sia gps che cartacee). Le escursioni
durano 5 ore.
Riprendo verso sud, costeggiando
i laghi costieri della zone meridionale del delta.Presso
uno di questi, è l'antica colonia greca di Istria,
la più importante della Romania. Posta sulle rive dell'antico
Pontos Euxinus, perse gradatamente importanza in epoca romana,
a causa del progressivo interramento della costa, dovuto al
vicino delta del Danubio.
Continuando verso sud, arrivo
a Costanza, la principale città romena sul Mar Nero.
Entro in città dalla zona balneare posta sul cordone
sabbioso litoraneo a nord, tra il mare la laguna, percorrendo
un'ampia strada a più corsie. Numerosi sono gli stabilimenti
balneari e i locali di ritrovo.Alla
fine della strada c'è un piccolo pedaggio.
Arrivo nella piazza principale
di Costanza, intitolata al famoso antico poeta romano Ovidio,
qui esiliato.Nei
pressi, da non perdere, è l'Edificiul roman cu
mozaic, un antico magazzino costruito dai romani nella
zona portuale, il cui tetto è completamente ricoperto
da un mosaico che originariamente era esteso ben 2.000 m²
(ne restano 850).
Interessante anche l'antico
casinò sul mare (ora ristorante),oltre
alla presenza, a pochi metri, di moschea e chiesa.
Decido di trovare alloggio
fuori città e punto quindi verso alcuni centri balneari
a sud. Superato l'inutile canale Danubio-Mar Nero (opera faraonica
voluta da Ceaucescu per collegare il Danubio al Mar Nero evitando
l'ansa del delta; costò molte vite umane, ma poi è
finito inutilizzato a causa del basso pescaggio), arrivo ad
Eforie nord, dove trovo sistemazione per la notte.
Percorsi pochi km di Romania,
entro in
- Bulgaria.
Questa zona (tra il confine e Varna) è ricca di spiagge
e località balneari, ed è affollata di turisti.
Punto sul più tranquillo
capo Kaliakra, che si protende nel Mar Nero. Belle le fortificazioni,
suggestivo il luogo.All'estremità
del capo, un piccolo ristorante.
La rocca fu usata come rifugio
dai vicini villaggi, al tempo del secondo regno bulgaro; narra
una leggenda che 40 ragazze si gettarono dalla rupe pur di
non cadere in mano dei mussulmani, intrecciando i propri capelli
affinchè nessuna potesse recedere all'ultimo momento.
A ricordo di questo c'è un monumento.Vero
o meno che sia, sono felice di vivere in un tempo in cui si
può visitare tranquillamente (quasi) tutto il mondo,
senza rischiare la vita.
Proseguo verso sud, attraversando
prima Varna e poi Burgas, i due principali porti della Bulgaria,
anche militari.
Diretto a Istanbul, non c'è
strada litoranea, e quindi mi dirigo verso l'interno, attraverso
le montagne. La strada sale tranquilla, in una regione boscosa,
ma poi è spesso interrotta da lavori in corso (soprattutto
dopo la frontiera turca), che dovrebbero trasformarla in una
comoda superstrada; la moto si ricopre ancora di più
di polvere e terra.La
frontiera della
- Turchia
si dimostra la più lunga da attraversare in tutto il
viaggio, soprattutto a causa della molteplicità di
uffici competenti, ognuno dei quali ha il suo timbro da apporre.
Scendendo a valle, la strada
si trasforma in una veloce superstrada, in questo momento
gradita, poichè sto facendo tardi e vorrei arrivare
a Istanbul prima del tramonto.
Arrivato sulla direttrice Edirne-Istanbul,
è autostrada, dal pedaggio piuttosto economico, a differenza
della benzina che scopro essere in Turchia la più cara
della mia vita (€/l 1,84!)
Ed infine, ecco Istanbul: enorme,
con la periferia sterminata, che si annuncia da km. Arrivare
al centro e soprattutto trovare lo svincolo giusto è
un impresa. Vado un po' a naso, cercando di tenermi vicino
al Mar di Marmara: in questo modo dovrei arrivare al Bosforo
e al Corno d'Oro, nei cui pressi voglio trovare alloggio.
Il traffico è intenso: è sabato pomeriggio e
i turchi affollano i parchi sul mare.Percorro
il lungomare, ma poi un'indicazione per il Topkapi (il grande
complesso di edifici sede della corte dei sultani ottomani
dal 1465 al 1853), mi trae in inganno e mi perdo nel tessuto
cittadino. Poco male: costeggio le imponenti mura della cittàfino
a sbucare dall'altra parte, sulla riva del Corno d'Oro.
Non riesco però a trovare
alloggio per la notte: la città è troppo grande,
il traffico caotico, il sole sta per tramontare e sono stanco.
Adotto la tattica del taxi: ne fermo uno e gli chiedo di portarmi
ad un albergo, non caro, centrale e con un parcheggio per
la moto.
Il tassista parte a razzo e,
dopo qualche giro, mi porta in un albergo. Il parcheggio non
ci sarebbe: provano prima in un cortile vicino, ma poi l'accordo
col proprietario salta (almeno così mi sembra di capire).
Infine l'addetto dell'albergo s'impegna a guardare la moto
per la notte, parcheggiata davanti all'ingresso, per una mancia
di 5 €. L'albergo è centrale, sono troppo stanco
per girare ancora: accetto. Questa storia della mance però
mi dà fastidio, soprattutto quando, salito in camera,
il cameriere, che ha voluto per forza portare il mio bagaglio,
mi chiede bahsis (cioè mancia, in turco, l'unica
parola che ho imparato). Accetto, chiedendo però almeno
una bottiglia d'acqua. Il furbacchione prende i soldi e poi
... ne manda un altro a portarmi l'acqua, costringendomi così
a sborsare un'altra mancia. Io accetto anche di pagare 40
€ per una notte in albergo (il prezzo di oggi), ma non
sopporto che mi si spillino soldi per servizi non richiesti
e che comunque dovrebbero essere compresi nel prezzo già
pagato.
Sistemata la questione camera,
esco a piedi per i vicoli del centro di Istanbul: è
ormai sera, molti negozi hanno già chiuso. Quasi ad
ogni metro c'è un posto per mangiare. Mi fermo in un
piccolo locale e, per pochi euro, mangio della carne arrostita
al momento, avvolta in una sfoglia di pane: ottimo e abbondante.
Passeggio un po', pensando che il mio viaggio sta volgendo
al termine: ho raggiunto il punto più lontano dal confine
italiano. Calcolo che, da qui, in 2 giorni posso rientrare
in Slovenia. Ma prima voglio fare una puntata in Asia.
Istanbul è una città
enorme e affollata, dal traffico caotico (circa 8.000.000
di abitanti); l'ho già visitata 2 volte (non in moto).
Decido quindi per una rapida visita solo di alcuni monumenti
imperdibili, all'alba, prima che il traffico diventi insopportabile
(oggi poi è domenica).
Ripresa la moto (diligentemente
custodita davanti all'albergo), mi dirigo verso la Moschea
Blu, attraversando quasi tutto il centro storico di Istanbul.
Le strade per fortuna sono semideserte (e lo credo, vista
l'ora!).
Anche se non è la prima
volta, vedere la Moschea Blu è sempre una grande emozione.
Inoltre arrivarci in moto, almeno per me, è tutta un'altra
cosa: le sensazioni che provo, infatti, non sono assolutamente
paragonabili a quelle provate anni fa, nelle visite effettuate
in pullman, scendendo da una nave crociera. Ho ancora una
volta la conferma che, almeno per me, il mezzo è più
importante del fine; anzi, è il mezzo stesso, in fondo,
il fine del viaggio.
Fin da lontano vedo i suoi
6 minareti, caratteristica già questa che la rende
quasi unica tra le moschee. La Moschea Blu (Sultan Ahmet
Camii), costruita tra il 1609 e il 1616, presenta una
cupola centrale, affiancata da quattro semicupole. L'interno
è rivestito da oltre 20.000 piastrelle, nelle quali
predomina soprattutto il blu, illuminate dalla luce che entra
dalle sue 260 finestre.
Parcheggio proprio di fronte
e l'ammiro nella luce mattutina.Da
questo stesso punto, girandomi dall'altra parte, posso intravedere
l'altro monumento simbolo di Istanbul, la Basilica di Santa
Sofia (Aya Sofia). Mi avvicino con la moto. Santa
Sofia fu prima basilica cristiana, costruita sotto l'imperatore
Costantino tra il 532 e il 537, poi trasformata in moschea
(dopo il 1453), senza tuttavia grandi trasformazioni (a parte
i 4 minareti); adesso è un museo. L'originale struttura
è un po' appesantita esternamente dai massicci contrafforti
aggiunti per puntellarla, dopo diversi terremoti.
Adesso, però, ho un
adempimento "geografico" da svolgere: dopo aver
girato quasi tutta l'Europa e un paio di puntate in Africa,
ora voglio portare la moto in Asia. Trovandomi a Istanbul,
basta percorrere uno dei due ponti sul Bosforo. Supero il
ponte di Galata (sul Corno d'Oro, con la vicina Torre di Galata,
costruita nel 1348 dai Genovesi, che qui avevano un fondaco),attraverso
i quartieri di Galatasaray e Besiktas (di calcistica memoria)
e, dopo un paio di tentativi, imbocco lo svincolo giusto e
vedo il ponte.Ben
presto il Bosforo scorre sotto di me e passo dalla sponda
europea a quella asiatica di questa città, unica al
mondo, a cavallo di due continenti.Il
cartello "Benvenuti in Asia" mi accoglie dall'altra
parte.Ed
è proprio in questo momento, quando ancora il viaggio
è in corso, mentre passo da un continente all'altro,
che matura nella mia mente il progetto del prossimo viaggio,
in cui l'Asia non sarà solo una breve parentesi.
Ritorno quindi in Europa, attraversando
lo stesso ponte.
Uscito da Istanbul (e dal suo
intrico di superstrade e svincoli), dirigo verso Edirne, raggiunta
in breve con una comoda autostrada.
All'uscita da Istanbul avevo
incontrato un motociclista locale e lo rivedo qui. Ci salutiamo
nuovamente e visitiamo insieme la celebre moschea Selimiye
Camii di Edirne (1569-75).
Questa
città fu la capitale ottomana dal 1367 al 1458 (quando
fu trasferita a Costantinopoli).
Il motociclista turco (di Istanbul,
ma la cui famiglia è originaria di questa regione)
è molto gentile mi invita a pranzo in uno dei locali
di fronte alla moschea. Ennesima conferma che un motociclista
in giro per il mondo non è mai solo.
Riparto verso Sofia, ma prima,
come da programma, supero il fiume Maritsa, confine tra Turchia
e
- Grecia,
entrando quindi in quest'ultimo paese:così
il mio giro dei Balcani può definirsi completo, essendo
questo il 15° Stato attraversato in questo viaggio.
Grandi campi di girasole mi
accolgono al rientro in
- Bulgaria (2);dopo
un bel percorso tra le montagne, giungo a Sofia. Questa è
una delle poche città dei Balcani che ha la cartografia
dettagliata sul mio gps: trovo quindi senza problemi, in centro,
la Hram-Pametnik Aleksandar Nevski. L'enorme chiesa,
costruita tra il 1904 e il 1912, è dedicata al principe
russo Alessandro di Novgorod, vincitore nel 1240 sugli svedesi
presso il fiume Neva, prima importante vittoria militare di
un esercito di una nazione slava. Fu edificata per commemorare
la liberazione dai turchi da parte della armate russe (che
subirono oltre 200.000 morti).
E' davvero imponente.Il
mio primo pensiero però va alle centinaia di migliaia
di uomini che sono morti nella guerra, la cui vittoria questa
chiesa ricorda.
Vicino è la chiesa di
Santa Sofia (Carkva Sveta Sofia),fatta
costruire dall'imperatore Giustiniano nel VI sec., già
tanto famosa nel '300 da dare il nome all'intera città.
Trovo Sofia piena di alberghi
di lusso e di casinò; riesco comunque a trovare un
albergo "normale", ma non accetta euro o carta di
credito. Poco male: vado al vicino albergo di lusso con casinò
incorporato e cambio gli euro necessari.
Parto presto da Sofia: voglio
rientrare in giornata in Slovenia, a ridosso del confine italiano,
da dove sono partito 12 giorni fa.
Un tratto di statale ed entro
in
- Serbia (2)
superando una fila chilometrica di TIR (vantaggio della moto),un
bel tratto in una stretta valle tra le montagne della Serbia
orientale,poi
la lunga autostrada che porta fino a Lubiana. Prima di Belgrado,
però, lascio l'autostrada e devio verso le montagne,
per visitare il monastero di Manasija.
Nel tratto tra il monastero
e l'autostrada, percorro un curioso ponte misto strada/ferrovia.
Il monastero fortificato di
Manasija, costruito nel 1406-18 dal despota serbo Stefan Lazarevic
come proprio futuro luogo di sepoltura, diventò presto
un importante centro culturale e letterario.
La cinta muraria che lo circonda
è davvero imponente; mi rendo conto quanto la difesa
dagli attacchi esterni fosse importante in quei secoli.Superate
le possenti mura, appare la chiesa della Trinità.
Qui trovo una vecchietta che,
molto gentilmente, mi mostra l'interno della chiesa, spiegandomi
(un po' a gesti, un po' con rare parole comprese da entrambi)
i soggetti dei vari affreschi delle pareti. Ad un certo punto
mi indica un dipinto che raffigura Stefan, il fondatore del
monastero. Il suo volto si fa serio e poi triste: "veniva
dal Kosovo", mi dice; e i suoi occhi si velano di lacrime.
Non ha bisogno di dire altro.
Ho capito. Il suo sguardo triste mi parla più di mille
parole; i suoi occhi mi spiegano più di tanti discorsi
e ragionamenti, più di ogni complessa valutazione politica-diplomatica.
"Veniva dal Kosovo",
dalle radici della nostra nazione, dalla culla della nostra
fede; veniva dalla nostra patria perduta.
Saluto la vecchietta, stringendole
a lungo le mani e guardandola negli occhi, e torno alla moto;
il resto è una veloce autostrada verso casa.
E' stato un viaggio diverso dai miei soliti.
Un viaggio, più che nel paesaggio, nella storia. Piuttosto
che tra monti e fiumi, tra la gente e i popoli di questa parte
d'Europa.
Un viaggio che mi ha fatto
comprendere, almeno in parte, quanto forti e, a volte, inestricabili,
siano i legami tra popoli e territori, e quanto complesso
sia l'intrico dei rapporti tra le diverse e talvolta contrapposte
popolazioni.
E che le soluzioni, per quanto inevitabili, sono a volte dolorose
e non accettate da tutti.
Non so quando questa zona troverà
pace, quando i rancori, gli odi, i risentimenti accumulati
in anni (o in secoli) potranno lasciare il posto ad una normale
convivenza.
Temo che non sarà una questione di anni, ma di generazioni.
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